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Qui ci vuole una rivoluzione culturale
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di Nicola Tranfaglia

Qui ci vuole una rivoluzione culturale Chi conosce a fondo i media, perché ci lavora o insegna la loro storia, sa anche che, nella grande trasformazione tecnologica che ha caratterizzato il mondo contemporaneo negli ultimi dieci-quindici anni, hanno avuto luogo due fenomeni che vale la pena sottolineare con forza:
1) che i media hanno per così dire "inghiottito" la politica, hanno avuto cioè un ruolo crescente a determinare gli atteggiamenti delle masse popolari e ex-borghesi (non si può parlare di borghesie come se ne parlava una volta) e hanno avuto un ruolo centrale nel provocare i cambiamenti intervenuti negli ultimi tre-quattro anni con l'espandersi della crisi economica mondiale, dalle rivolte studentesche nelle metropoli a quelle decisive nel Maghreb come in tutto il nord Africa;

2) che è difficile parlare dei vecchi e dei nuovi media come se fossero realtà separate tra loro. Riprendendo un tema già individuato da Mc Luhan alcuni decenni fa come "rimediazione", dobbiamo dire che "i nuovi media non sostituiscono i vecchi ma li trasformano, adattandoli alle proprie dinamiche e i vecchi reagiscono appropriandosi a loro volta del linguaggio dei nuovi. La televisione, i giornali e la radio si reinventano grazie alla rete e la rete "copia" i linguaggi dei vecchi media. Non esiste una successione lineare, tutto si mischia."

Questi fenomeni emergono con chiarezza, e non poteva essere diversamente, dall'interessante conversazione che è al centro de L'Eclissi. Dialogo precario sulla crisi della civiltà capitalistica. (Manni editore, pp.95, euro dieci) di due noti studiosi dei "nuovi media" come Carlo Berardi (noto in altri tempi a molti di noi come Bifo) e di Carlo Formenti, del quale ho letto da poco un saggio di notevole interesse e originalità, intitolato Felici e sfruttati edito dalla casa editrice Egea che affronta il tema degli "intellettuali cognitivi" nella società contemporanea. Restano naturalmente in piedi, e i due autori ne sono consapevoli, i dati qualitativi e quantitativi che caratterizzano ogni paese in Europa e nel mondo.
Così il caso dell'Italia si differenzia da quello degli Stati Uniti, come da quello di altri grandi paesi europei, perché vede, da una parte, un primato indiscutibile del mezzo televisivo rispetto ai giornali e in parte anche alla rete (anche per gli ostacoli che la maggioranza politica attuale continua a interporre contro l'estensione che tanti richiedono della "banda larga").

Siamo in Italia - è il caso di ricordarlo - in una situazione nella quale soltanto il 24 per cento dei cittadini apprende le informazioni attraverso la stampa e più dell'80 per cento utilizza anzitutto e a volte soltanto i canali televisivi per conoscerle. E questo dipende dal livello dell'istruzione della popolazione che non possiede, per più di due terzi, gli strumenti cognitivi necessari per apprendere le notizie sui quotidiani e sui settimanali.

Questo è un dato da cui occorrerebbe partire quando si parla della politica che il governo Berlusconi ha fatto, negli otto anni in cui ha governato nel primo decennio del ventunesimo secolo, sull'istruzione di massa e da cui, se riusciremo ad emergere, dovremmo ripartire per costruire un'altra Italia.

Ma la situazione italiana è caratterizzata, nello stesso tempo, dalla centralità di un conflitto di interessi che nessuno degli attori dello scontro politico ha voluto risolvere. Abbiamo un presidente del Consiglio che continua a influenzare pesantemente cinque dei sei canali della tv analogica e, in questo modo, continua ad esercitare una egemonia culturale già conquistata nei primi anni novanta, cioè vent'anni fa.

Ma torniamo al libro di Berardi e di Formenti da cui siamo partiti all'inizio. Dalla galassia Facebook che ha reso la dimensione relazionale così veloce e vasta da farla diventare per certi versi impossibile da controllare, al fenomeno Wikileaks di Julian Assange che ha squarciato il velo della apparente neutralità della rete e ancora alla discussione, sempre aperta, su democrazia e Internet e alla questione della attuale reazione soft al fallimento economico del liberismo europeo e americano, si profilano nel dibattito tra i due studiosi tutti gli scenari centrali del tempo in cui stiamo vivendo.

Esiste un'alternativa culturale da proporre nei paesi modernizzati (come di fatto è ormai l'Italia) e in quelli che si affacciano ora alla modernità (come quelli sconvolti dalle ultime rivolte)? La risposta non è semplice. Berardi e Formenti mettono in luce con chiarezza le contraddizioni del nostro tempo ma non espongono, almeno in questa sede, i fondamenti di un modello di sviluppo alternativo a livello nazionale e mondiale. Sarà il caso di riparlarne in una prossima occasione.

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