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Articolo 21 - ESTERI
Obama, parla Shrum
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di Guido Moltedo*

Obama, parla Shrum Robert M. Shrum, Bob per gli amici, ha un curriculum di tutto rispetto: oggi è un politologo molto apprezzato dopo aver lavorato, come stratega e consulente politico, al fianco di personaggi del calibro di George McGovern, Jimmy Carter, Teddy Kennedy, Al Gore e John Kerry.
Per Kennedy, Shrum scrisse il famoso discorso pronunciato dal senatore del Massachusetts alla Convention democratica del 1980 con il quale “concedeva” a Carter la nomination del partito. Passerà alla storia per laline – diventata il marchio kennediano per eccellenza – «The dream shall never die», il sogno non morirà mai.
Ma è davvero immortale l’American Dream, anche a dispetto di questi tempi cupi? Sì, il sogno resta ancora “il tema” centrale nel dibattito pubblico americano, e lo è ancora di più ora, mentre si entra in una dura campagna elettorale in vista delle presidenziali del novembre 2012. Impresa titanica per Barack Obama e per il suo sfidante repubblicano, sapere rispondere a una domanda di futuro diversa da un presente che la maggioranza degli americani vive con angoscia e apprensione. «Gli americani fanno fatica a rinunciare all’American Dream», dice Bob Shrum, che incontriamo a Firenze in occasione della conferenza internazionale sul voto del 2012, organizzata dalla New York University. Ma ci sono tanti modi per “declinare” il sogno americano. Oggi sognare, per la gran parte dei cittadini statunitensi, è agognare un paese normale. «Quello che veramente vogliono – spiega Shrum – è “riparare” l’America. Vogliono poter riavere lavori giustamente remunerati, poter mandare i figli all’università, vivere in case che mantengano il loro valore».

E questa amministrazione ha saputo rispondere finora a queste domande?
Be’, nelle scorse elezioni di medio termine, la campagna presidenziale attaccava gli avversari accusandoli di «voler tornare indietro». Perché è stata un insuccesso? Perché gli elettori risposero: no, non vogliamo tornare a Bush, ma vogliamo tornare indietro ai tempi della piena occupazione, delle case che avevano un valore, dei fondi pensione non a rischio.

E la prossima campagna, come dovrà impostarla Obama?
Dovrà gestire una campagna per la rielezione con l’obiettivo primario di evitare che il voto sia un referendum su di lui, ma una scelta tra lui e lo sfidante repubblicano.
Dovrà tirare una netta linea di demarcazione, per mettere in chiaro per chi si batte (la gente comune) e per che cosa si batte (l’occupazione) e svelare fino in fondo da che parte si schierano i repubblicani, cioè per i privilegiati. Se riuscirà a farlo ha ottime possibilità di essere riletto. E mi pare che si stia muovendo in questa direzione.

E tuttavia il presidente-candidato non potrà esimersi dal dire scomode verità agli americani…

Già, e non sarà facile. D’altra parte, però, i repubblicani continuano a predicare il taglio delle spese governative come panacea e unica via per creare nuovi posti di lavoro. Nessuna teoria economica che si rispetti può sostenere una simile sciocchezza. Certo, per Obama è difficile tenere insieme – e spiegarlo agli americani – due politiche simultanee, una di stimolo all’economia per spingere la domanda, l’altra, di medio-lungo termine, tesa alla riduzione del debito. Va detto che Obama è l’unico presidente che abbia parlato agli americani in termini realistici sul problema del deficit pubblico.

Jimmy Carter denunciò il “malessere” dell’America, con la conseguenza che gli americani non lo rielessero, preferendo l’“ottimismo” di Reagan…
Carter sbagliò (anche se il termine “malaise” non lo usò lui ma un suo consigliere). Disse che mentre tentava di fare le cose giuste (erano anni di crisi energetica e di recessione) gli americani gli davano addosso. Non si guida così una nazione. Un leader deve ispirare. Io credo che un presidente possa, debba dire la verità. Kennedy, nel suo primo discorso sullo stato dell’Unione, avvertì che «le cose peggioreranno prima di migliorare». Roosevelt disse, nel suo discorso inaugurale, che «l’unica cosa di cui avere paura è la paura stessa».
Fecero quelle affermazioni dando un senso di speranza a una realtà dura. Penso che l’amministrazione Obama abbia fatto l’errore di pensare, peggio ancora, di dichiarare, nel primo round di misure di stimolo, che le cose sarebbero andate meglio, addirittura ponendo a se stessa delle asticelle, del tipo «la disoccupazione non supererà l’8 per cento».
Mai fissare asticelle per se stessi. Bisogna dire che sarà dura, ma rassicurare che se ne verrà a capo e che li porterai dall’altra sponda.

Hai lavorato per candidati sfidanti e per candidati incumbent. Che differenza c’è, nella strategia?

Un candidato in carica, un incumbent, può correre vantando le cose fatte, ma deve comunque dare il senso di dove vuol andare nel secondo mandato. C’è un passaggio nel discorso di accettazione della nomination di Al Gore: il voto non è un premio per le performance del passato. In genere un incumbent è avvantaggiato, ma tutto dipende dal contesto. McGovern non avrebbe mai potuto essere eletto, chiunque fosse stato il suo rivale. Fosse stato Kerry al posto di Obama, avrebbe vinto comunque contro McCain, candidato del partito incumbent.
Il miracolo di Obama, nel 2008, non fu aver vinto contro McCain, ma di aver battuto Hillary nelle primarie.

Obama è in difficoltà. Pensi che i candidati democratici vorranno prendere le distanze da lui per essere eletti?
I democratici sanno che Obama è l’unico che hanno, non hanno nessun altro. Sanno che non può che risalire la china. E poi non si prendono le distanze da un presidente incumbent. Non si vede come un elettore che non voti per il presidente-candidato possa votare per i candidati parlamentari del suo partito. Ma vedendo le cose in positivo, ai democratici conviene schierarsi con un presidente che porta avanti un discorso articolato, che anche loro possono sostenere, un discorso di netta demarcazione rispetto a quello dei candidati repubblicani, schierati con i detentori del privilegio.

Alludi alla possibilità che la campagna di Obama sia “negativa” nei confronti dell’avversario repubblicano? Anzi, non credi che sarà addirittura “distruttiva”?
Dipende da cosa intendi. Se sarà Mitt Romney il nominee, non ci vorrà molto per inchiodarlo alle sue responsabilità di businessman (prima dell’ingresso in politica), per aver licenziato un sacco di gente…

…non sarà attaccato soprattutto per la sua appartenenza alla chiesa mormone? Peraltro già ci pensa il suo campo ad attaccarlo su questo fronte…
Da questo punto di vista, Romney potrebbe avere dei problemi nel profondo sud evangelico. Pastor Jeffres, legato a Rick Perry, ha definito il mormonism un culto, una setta. Ma se Romney vincerà nelle primarie in Iowa e New Hamsphire – compito non facile – riuscirà ad aggirare gli ostacoli in stati ostili come la Carolina del sud. D’altra parte, anche l’elettorato evangelico che non lo ama perché mormone, di fronte alla scelta tra lui e Obama, non esiterebbe a scegliere Romney, tanto detesta il presidente.

E Perry?
Ha l’irruenza di un torrente a secco. Ha un sacco di soldi, ma è terribile nei dibattiti.

Le voci sulla sua vita privata (sul web circolano voci su sue presunte relazioni gay)?
Non ne so nulla. Non credo peraltro alle voci. Troppo spesso i rumours non sono veri.

*da Il mondo di Annibale

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