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Articolo 21 - Editoriali
La fiction, ovvero battere il cinema in tv
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di Stefano Munafò

da .Com

Sugli schermi della Rai e di Mediaset, in quest'autunno, vanno ancora in onda le repliche di vecchi successi, come "Medico in famiglia", "Elisa di Rivombrosa" e "Distretto di polizia". Ma, a giorni, si affiancheranno o subentreranno le fiction nuove di zecca. I titoli nuovi, al momento, non dicono ancora nulla ai comuni mortali. Ma, presto, sono destinati a diventare altrettanto noti come quelli vecchi. "La Terra del ritorno", con Sofia Loren e Sabrina Ferilli; "La Omicidi", con Massimo Ghini; "Cuore contro cuore", con Isabella Ferrari; "La Monaca di Monza", con Giovanna Mezzogiorno; "Cime Tempestose", con Alessio Boni. E poi ancora "Don Bosco", "Le cinque giornate di Milano" etc etc.
Storie di santi, di monache, di preti, di emigranti, di poliziotti, di medici, di avvocati. Personaggi che sono nei libri scolastici o di storia e personaggi di invenzione. Rappresentanti televisivi di varie "professioni sociali", scelte, non a caso, perché in Italia queste professioni (come ad es., quelle del prete o del poliziotto) si pongono all'incrocio di rapporti e di interessi collettivi (qualcuno direbbe, nazional-popolari).
Al di là della qualità dei racconti in sé, è interessante dunque capire perché moltitudini estese di spettatori italiani, di abitudini sedentarie, di istruzione medio-bassa, in particolare adulti e anziani residenti in prevalenza nella provincia, si appassionino a queste storie. La fiction televisiva, negli ultimi cinque anni, è diventata quasi un fenomeno sociale. E la predilezione del pubblico televisivo tradizionale per questo sistema dell'immaginario (certamente più schematico, ripetitivo e standardizzato, meno originale e meno ricco e profondo, rispetto all'immaginario filmico) sta emarginando proprio i film dalle prime serate televisive.
Può essere quindi interessante analizzare quali siano i meccanismi generali che suscitano interesse verso questo "genere", che ha dato vita ad uno dei tanti paradossi televisivi. Della fiction, infatti, si può dire che, sul piccolo schermo di Rai e di Mediaset, vince quasi sempre, anche quando è brutta. Mentre, al confronto, i film perdono molto spesso, anche quando sono belli. Perché?
C'è chi sostiene (in particolare tra i sociologi della comunicazione) che tutto dipenda dal fattore della "contiguità culturale". Dal fatto, cioè, che la fiction è una sorta di racconto continuo e subliminale dell'Italia. Perché mette in scena contesti e paesaggi italiani, facce, comportamenti, modi di essere e linguaggi conosciuti e vicini di casa.
Questo fattore indubbiamente contribuisce al successo della fiction, ma non lo spiega. Resterebbe, altrimenti, incomprensibile il perché i film americani stravincano nelle sale, in rapporto a quelli nostrani.
Io ritengo, piuttosto, che per spiegare più in profondo il successo della fiction (anche quando brutta) bisogna rifarsi ai "flussi televisivi" quotidiani prevalenti. Non sembri troppo oscuro: la fiction in tv, con il cinema è il solo "genere" che spezza l'egemonia del "presente indicativo". I talk, i dibattiti, i contenitori informativi e di spettacolo, i reality, gli avvenimenti sportivi, le news (direi quasi per definizione) raccontano quasi sempre segmenti e spezzoni del presente. Storie attuali, di cui quasi sempre non si conoscono gli antefatti e si perdono gli sviluppi, perché superati e sostituiti da altri segmenti attuali e così via.
E' questa, appunto, la "televisione del presente", che il pubblico è costretto a sorbirsi, per la ossessione dell'attualità, che caratterizza il mondo dei media.
La fiction (insieme con il cinema, ma con una differenza di cui tra poco rimarcheremo l'importanza) è l'unico linguaggio, in questo panorama televisivo quotidiano, che si propone e ha il potere di infrangere l'egemonia del presente, ricorrendo al passato, quando occorre, ed evocando il futuro, quando serve.
La fiction (sempre in condivisione con il cinema) è inoltre l'unico genere che in tv ricorre a un linguaggio di ricomposizione dei processi degli avvenimenti. In filosofia, si direbbe che ha una "visione escatologica" della realtà. Con le sue sceneggiature (pensate e ripensate, anche quando brutte) parte dall'inizio di una storia, ne propone lo svolgimento, corre sempre verso una conclusione o una fine. Tende così, a differenza dei generi sopra citati (contenitori, talk, reality, news) a ricomporre tutti i segmenti di una vicenda e a superare quella che i sociologi (Braudillard) definiscono la "frattalizzazione del tempo". In questo modo, fiction e cinema offrono allo spettatore racconti più completi e perciò più attraenti e appaganti.
Di questi due fattori inevitabilmente intrecciati (l'uso delle tre dimensioni del tempo e la ricomposizione dei processi della realtà), il cinema è l'espressione e il linguaggio insieme più universale e aristocratico. Non ricorre, infatti, quasi mai alla ripetitività e alla standardizzazione (anche industriale) che caratterizzano la fiction. I film sono quasi sempre (non sempre) dei prototipi, hanno in sé l'ambizione di raccontare una storia se non unica molto spesso originale.
Ma, purtroppo, il cinema in tv, negli ultimi anni ha accusato un processo di logoramento, che non deriva da problemi di estetica o contenutistici (per il cinema italiano ci sono anche quelli, si veda il suo "minimalismo ombelicale", con poche eccezioni), ma da una ragione esterna e di tipo industriale. Il processo di sfruttamento e di distribuzione dei film si è fortemente intensificato: i film non appaiono più, come in passato, solo nelle sale, per poi approdare dopo qualche tempo sul piccolo schermo generalista. Attraversano un processo di sfruttamento diversificato su molti mercati: quelli delle cassette, dei dvd, della pay-tv etc. E così, alla fine del processo, arrivano "stanchi" sugli schermi della Rai o di Mediaset.
Pur disponendo al meglio della potenza evocativa, di cui parlavo prima, i film nella tv generalista, sono ormai diventati delle "repliche", mentre la fiction è sempre una "prima visione". E' questa, a parer mio, la ragione fondamentale che spiega il relativo insuccesso dei film in tv e il relativo successo della fiction. La debolezza recente del cinema in tv (non solo quella cronica dei film italiani, ma quella altrimenti inspiegabile dei film americani) è in fondo un riflesso della maggiore pervasività dei film in altri mercati collaterali. L'altra faccia della loro forza, che nella tv generalista è diventata debolezza. Si aggiunga, per inciso, che il pubblico televisivo sta diventando sempre più vecchio e abitudinario. Propenso quasi sempre, nella visione dei racconti, ad accettare schemi ripetitivi, anziché dall'essere sorpreso dalle novità dei film.
E' tramontata, insomma, definitivamente l'epoca in cui il rituale per eccellenza del cinema veniva celebrato nelle grandi cattedrali (le tradizionali sale cinematografiche). Le cattedrali, nel frattempo, sono ormai diventate stazioni di servizio (i multiplex). E barlumi di cinema compaiono in molteplici luoghi e installazioni, dai video-giochi, ai video-clip, a internet, ai dvd, alle cassette. Come ammonisce su "Ciak" un nuovo "manifesto" di critici cinematografici non convenzionali.
Produttori, distributori e manager televisivi, dovrebbero tenerne conto nei loro investimenti. Investendo di meno sul valore antenna e sulle acquisizioni di pacchetti di film. E, contestualmente, di più sugli altri segmenti della distribuzione. Bene hanno fatto, dunque, i manager di Rai-Cinema a tentare, sulla scia di Medusa, l'ingresso distributivo in molti mercati, diversificati ma integrati. E solo gli archeologi del cinema tardano a rendersi conto che oggi, in particolare per produrre cinema italiano (come molti chiedono anche al servizio pubblico), è possibile solo se non ci si ferma alla tradizionale acquisizione dell'antenna televisiva.
Questo, mi rendo conto, solleva reazioni da parte delle corporazioni tradizionali pre-esistenti. Ma l'alternativa è diventata semplice: o si interviene in tutti i segmenti della distribuzione o è preferibile abbandonare la produzione di cinema italiano.
P.S. Queste mie ultime considerazioni, rinviano a quanto è avvenuto nell'appena concluso Festival di Venezia. Dispiace che a Venezia, un sinistrismo cinematografico di colore, in avversione a questa Rai governata (male) dalla destra (una destra, però, che con tutti i suoi limiti generali, nel settore specifico del cinema, ha avuto l'indubbio merito di produrre il film di Amelio e non solo) riesca sotto sotto quasi a gioire per un mancato riconoscimento a un bel film italiano, perché prodotto dalla Rai. Così come l'anno precedente avvenne con il film di Bellocchio.
I pregiudizi contro la Rai, nel mondo cinematografico, sono persino più forti e pre-esistenti a quelli contro Berlusconi. E si dimentica che è sempre un errore identificare tutta la televisione e il suo cinema con la gestione del potere di turno.
In una notte, in cui tutte le vacche sono nere. Anche i critici possono diventare peggiori dei politicanti, quando giudicano autori e film in base alle etichette di chi li produce.
La verità è che Rai-Cinema è uno dei pochi settori della Rai che opera con scelte liberali. E nel settore del cinema Rai, non si sono mai verificati, anche negli ultimi anni, casi come quelli di Biagi e Santoro. Per intenderci.
E la Rai di destra, più in generale, non ha influito per nulla sugli orientamenti della Mostra. Anzi, anche a Venezia si sono visti e sentiti alcuni rappresentanti della destra schiumare di rabbia per una restaurazione culturale, che continua a restare un sogno velleitario. Nonostante l'impossessamento di molte poltrone negli apparati culturali pubblici. Come evidenzia, anche la stizzita deplorazione del consigliere Rai di An Veneziani, per l'affermazione al Festival di film con al centro storie di aborto, di eutanasia e di contestazione (Radio Alice).
Una sinistra masochista e un poâ?? pettegola e una destra naif, presenzialista e velleitaria. Questo, ci ha raccontato il Lido, nel suo piccolo mondo, al di fuori e a discapito degli ottimi film programmati. La mostra è stata bella. Il suo contesto, qualche volta patetico.

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