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Il passo indietro di Erdogan
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di Nicola Mirenzi

Il passo indietro di Erdogan  Dopo anni di conflitto carsico, in Turchia, la guerra civile curda è tornata prepotentemente in testa all’agenda politica nazionale. E non solo per l’attentato che i separatisti curdi del Pkk hanno lanciato il 19 ottobre, uccidendo 24 militari turchi (il più alto bottino di sangue ottenuto da qualche anno a questa parte). Ma anche perché la reazione dello stato turco è stata durissima. Sia da punto di vista militare. Sia dal punto di vista politico e giudiziario.

 

Nel fine settimana, la magistratura ha arrestato una quarantina di persone che facevano parte di dell’associazione Kck (Unione delle comuità curde), un’organizzazione ombrello che raccoglie sotto di sé tutti i gruppi dell’associazionismo curdo, compreso il Pkk. Nella retata sono finiti in manette anche due intellettuali riconosciuti nel mondo pubblico turco, il professore universitario Busra Ersanli e l’editore Ragip Zarakolu. Entrambi sono accusati di fiancheggiare il Pkk, un’organizzazione considerata terroristica oltre che da Ankara anche da Unione Europea e Stati Uniti.

Ma cosa ci sia di terroristico nelle loro attività è difficile immaginarlo.

E in effetti una parte dell’opinione pubblica turca, anziché accontentarsi dell’ipotesi di reato avanzata dai magistrati, ha cominciato a mettere seriamente in discussione la legge in osservanza della quale gli arresti sono stati disposti. Secondo alcuni commentatori liberal, infatti, tali norme danno una così ampia definizione di terrorismo da lasciare un margine di manovra troppo largo ai magistrati. I quali possono finire per considerare terroristico anche il diritto e la libertà d’associarsi sulla base dell’appartenenza etnica e linguistica. Gli esempi non mancano. Oggi, più di diecimila persone sono in galera per far osservare questa legge. E molte di loro non hanno fatto altro che condurre delle battaglie sociali e politiche per il riconoscimento dell’identità curda.

Il fatto nuovo è che di fronte a questo dibattito, che tocca il cuore della democrazia turca, il governo Erdogan ha reagito con una durezza inedita, arrivando a dire che la contestazione e la messa in discussione dell’operato della magistratura “equivale a sostenere il terrorismo”. Mentre nella loro storia recente Erdogan e il suo partito (ormai arrivati al terzo mandato consecutivo) sono stati i protagonisti di un’apertura senza precedenti alla minoranza curda, poi arenatesi nelle sabbie mobili del nazionalismo sui cui è costruito lo stato fondato da Kemal Ataturk. Di fronte a tale difficoltà, Erdogan, che non ha esitato a condurre (e vincere) la sua battaglia per la  diminuzione del potere dell’esercito nella vita pubblica, ha compiuto molto più di un passo indietro. Continuando a ridurre il tema dell’identità curda a una questione di solo terrorismo (e non già politica, culturale, sociale) e avvicinando così le sue posizioni a quelle dei gruppi di potere che hanno finora retto la spina dorsale dello stato turco e che lui ha sempre combattuto.

Il punto però è che la nuova costituzione che il parlamento approverà da qui a un anno potrebbe cristallizzare ancora una volta questa vocazione  discriminatoria della repubblica turca. Anziché  riconoscere il pluralismo etnico e linguistico che costituiscono di fatto la Turchia (come chiedono i gruppi politici curdi). Assicurando così lunga vita al terrorismo del Pkk, il quale avrà ancora una fonte di frustrazione a cui abbeverarsi. E forse ridisegnando significativamente l’immagine di Erdogan. Che piuttosto che  passare alla storia come l’uomo che ha democratizzato lo stato turco, potrebbe trasformarsi nell’uomo che ne ha rinverdito la sua anima autoritaria.

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