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Torna lo stato democratico
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di Federico Orlando*

Torna lo stato democratico

Chi si rivede, il senso dello stato. È apparso, non come istanza sentimentale di nostalgici ma come concreta possibilità per generazioni nuove, sui banchi del governo, al senato, mentre parlava il presidente del consiglio. Nelle primissime battute del suo discorso. E s’è capito che il suo sarebbe stato un discorso tecnico, non tecnocratico. Tecnico cioè concreto, perché pieno di conoscenza delle cose da fare per l’immediato e per lo sviluppo: non approfondendo ma colmando il solco tra l’antipolitica e una politica impazzita come certi re scespiriani. Che piacere dimenticato, nel paese del futurismo del dannunzianesimo.
Il piacere di risentire lo stile disadorno, da primo impiegato dello stato, di Giolitti e De Gasperi: frasi composte da soggetto, predicato e complemento, e un concetto dietro l’altro come i grani della collana, democrazia, istituzioni, nazione, Europa. Sarà la via giusta che ci farà ritrovare la comunicabilità fra una politica tornata servizio e fasce di popolo ostili per retaggio e ideologia? Mentre Monti parlava, alle sue disadorne concretezze si contrapponevano gli slogan degli studenti, motivati dal disagio.
Al disagio generale e specifico, il presidente del consiglio ha offerto una risposta, restituendo anzitutto alcune certezze di cittadinanza agli italiani, che le avevano perdute insieme alla fiducia nell’avvenire. Per prima la certezza delle istituzioni, bastardamente distrutta da una presunta “Costituzione materiale”, sovrapposta alla legge.
L’Italia resta una repubblica parlamentare, quale che sarà la forma più idonea di parlamento. «Il parlamento è il cuore pulsante di ogni politica di governo», ha riaffermato Monti, al di là di ogni illusione passata sul presidenzialismo e di ogni retorica presente sulla tecnocrazia.
Non c’è una tecnocrazia contrapposta alla democrazia, quasi un rapporto medico-paziente: c’è una democrazia violentata cui ridare fiducia in sé. «Al parlamento vanno riconosciute e rafforzate, attraverso l’azione quotidiana di ciascuno di noi, dignità, credibilità, autorevolezza». Il cittadino che eleggerà il parlamento non compirà l’inutile rito di convalidare le predestinazioni fissate dalle oligarchie, perché entrambe le camere torneranno «protagoniste del pubblico dibattito».
Così come non esiste un governo del presidente, che manda in quarantena democrazia e sovranità popolare. Esiste un «governo di impegno nazionale», che «assume su di sé il compito di rinsaldare le relazioni civili e istituzionali». In modo che si evitino le degenerazioni che ci affliggono: senso della famiglia che diventa familismo, sentimento dei luoghi che diventa localismo, adesione al partito che degenera in settarismo. E perciò il problema che è presente al governo è operare per «riconciliare maggiormente i cittadini e le istituzioni, i cittadini alla politica». Parafrasando, al contrario, l’antica legge economica della cattiva moneta che scaccia la buona, si conferma l’antica legge della politica, il buongoverno scaccia l’antipolitica.
Ribaditi supremazia e compiti della rappresentanza – parlamento, governo e garanzia di un capo dello stato non arbitro ma moderatore – si viene al cuore della politica, cioè al suo obbiettivo, che ha traguardi immediati e traguardi medi e lontani: tutti attraversati da un filo che unisce il presente al futuro per assicurare ai cittadini il massimo di pace, benessere e giustizia.
Essenziale è che chi governa disponga di quel filo. Ne disposero Adenauer, Schuman, Monnet, De Gasperi, e avrei aggiunto il socialista Spaak e, tra i precursori, il comunista indipendente Spinelli e il liberale Einaudi. Il loro filo era l’Europa.
Sono passati ottant’anni dal manifesto di Ventotene e i buoni governanti continuano a srotolare la matassa di quel filo, e talvolta si fermano a ricucirlo, quando cattivi governanti lo tagliano. In queste ore la politica s’affanna a ricucire il filo spezzato dell’Europa, a superare «i suoi giorni più difficili dagli anni del dopoguerra». Se non si riuscisse a riallacciare quel filo, «non illudiamoci – ha ammonito Monti, con dimenticata sincerità – che il progetto europeo possa sopravvivere, se dovesse fallire l’Unione monetaria. La fine dell’euro disgregherebbe il mercato unico, le sue regole, le sue istituzioni. Ci riporterebbe là dove l’Europa era negli anni Cinquanta».
Chi scrive ha conosciuto gli anni Cinquanta: quando, come rivelava il primo censimento della repubblica, l’80 per cento delle famiglie italiane abitavano non case ma tuguri. Quando per andare dal Sud a Roma per l’università, chi aveva tale fortuna, si partiva la sera con la “littorina”, e si dormicchiava per ore su fogli di giornale negli atrii puzzolenti delle stazioni, in attesa delle coincidenze.
Quando per liberare i genitori dal peso di una bocca si afferrava, dopo la laurea, e anche prima, il primo lavoro manuale lasciato da un quasi analfabeta che andava in pensione: e non ci si sentiva umiliati.
Quando un sociologo triestino che amava la Sicilia, Danilo Dolci, descriveva l’isola della mafia e dei braccianti come “Lo spreco”: parola dura, ma essenziale, il cui aggettivo, “sprecato”, Monti ha resuscitato ieri, parlando delle donne e dei giovani, «le due grandi risorse sprecate del nostro paese», i precari in tutto. E non solo nel Sud della questione meridionale, ma anche nel Nord della nuova questione settentrionale.
Ma che ne sa degli anni Cinquanta l’Italia degli evasori e dei condonati, degli amnistiati e dei prescritti, del lavoro nero e dei “soliti idioti”, dei pensionati baby e dei pescecani parassiti? Poi Monti ha parlato in dettaglio delle cento cose che dovremo fare per non tornare agli anni Cinquanta (l’emergenza), e per andare oltre il presente (la crescita). I lettori le troveranno commentate negli articoli dei colleghi.
Noi ci fermiamo qui, non in attesa di miracoli, ma nella speranza di un rinascente stato italiano. Liberaldemocratico e riformista.

* da Europa Quotidiano

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