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Carceri: tra silenzio e indifferenza continua la carneficina
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di Valter Vecellio

Carceri: tra silenzio e indifferenza continua la carneficina La notizia, una conferma peraltro, la si ricava da uno scarno flash di un’agenzia, “Nove colonne”: “Il rischio di suicidio è più elevato per le persone in stato di detenzione, rispetto alla popolazione generale, con un rapporto 20 volte maggiore. Nelle carceri italiane nel 2009 il tasso di suicidi è stato di 116,5 su 100.000 detenuti; mentre il tasso registrato al di fuori del carcere è stato di 4,9 su 100.000 persone. Nel 2010, nelle carceri italiane i suicidi sono stati 55; 1.137 i tentati suicidi e 5.703 gli atti di autolesionismo. La maggior parte dei suicidi in carcere avvengono nel primo periodo di detenzione: il 61 per cento dei casi riguarda reclusi da meno di un anno; il 51,6 per cento si verifica nei primi 6 mesi di reclusione; il 17,2 per cento nella prima settimana di reclusione. Il 62 per cento dei decessi per suicidio in carcere riguarda utilizzatori problematici di sostanze”.

   E vai a capire cosa deve essere passato per la mente dell’individuo che è riuscito a concepire, per definire chi fa uso di sostanze stupefacenti, la definizione di “utilizzatori problematici di sostanze”. I percorsi e le vie tortuose del linguaggio burocratese sono davvero infiniti e insondabili.
   Al di là comunque dell’espressione lessicale – che tuttavia lascia intendere assai più di quanto non dica – c’è il dato, drammatico e vissuto come normale, del rischio suicidio, che “in stato di detenzione, rispetto alla popolazione generale” è 20 volte superiore; e non è “solo” un rischio, come le cronache di queste ore ci documentano; e non è “solo” il suicidio, visto che grazie al tempestivo intervento di agenti di polizia penitenziaria o volontari o altro personale, più di 1500 di questi propositi vengono sventati; e si ammetta pure che la metà sono gesti dimostrativi, messi in opera senza vera volontà di condurli a compimento; anzi, ammettiamo che due terzi sono “finti” suicidi: ne restano sempre 500 che sono “veri”, anche se magari non vengono rubricati come suicidi in carcere. Perché se il detenuto che decide di farla finita viene portato in coma in ospedale, e in ospedale muore qualche giorno dopo, ecco che non viene più annoverato tra i suicidi in carcere. Dunque, da questa macabra lista verrà probabilmente escluso quel detenuto, italiano, in attesa di giudizio, ricoverato all'Ospedale Villa Scassi di Genova, che si è tolto la vita la notte scorsa, impiccandosi. E al massimo guadagnerà qualche riga tra le “brevi” il tentato suicidio ieri notte al carcere delle Vallette di Torino; oltre tutto, figuriamoci, un marocchino (!), salvato all’ultimo minuto, che aveva cercato di farla finita ingerendo della candeggina.
   Sono cifre da capogiro quelle che vengono dalla comunità penitenziaria, espressione di una disperazione e di una solitudine in cui precipitano giorno dopo giorno, e che dovrebbero provocare vertigine, sgomento, irritazione per il nulla o il pochissimo che si fa e riesce a fare…

Ma mettiamoli da parte, i suicidi. Ci sono anche le morti di chi morire non voleva; persone di cui lo stato era massimamente responsabile per incolumità fisica e psichica, essendo detenute, e dunque private a torto o a ragione della loro libertà.
   Nel carcere di Trani muore un detenuto, Gregorio Durante, che, secondo quanto riferisce la famiglia, soffriva dei postumi di una encefalite virale. Segnalata la grave situazione in cui si veniva a trovare il detenuto, non solo non veniva creduto, ma era per giunta punito per aver simulato la malattia. E di simulazione in simulazione, Durante è morto. Non ha torto il responsabile di “Antigone” Patrizio Gonnella quando osserva: “Delle due l’una: se è vero che simulava allora non è vero che è morto per malattia. Se invece è morto per malattia si individuino le responsabilità di chi non gli ha creduto”.
   Nessuna simulazione, invece, per quanto riguarda l’internato all’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto. Quell’uomo era sicuramente da tempo malato, in condizioni di salute precarie, al punto che era costretto a fare ricorso alle bombole di ossigeno.

   Non vorremmo arrivare al punto di dire che la morte, per quell’uomo è stata una liberazione, però fa pensare il fatto che si fosse visto prorogare la misura di sicurezza per ben quattordici volte. Un dato questo che dimostra ancora una volta come persone malate, bisognose di assistenza per i problemi mentali che vengono riconosciuti, sono “semplicemente” dimenticati in quelle discariche sociali che sono gli OPG, e condannati a di fatto veri e propri ergastoli. E sono circa 1500 le persone che vivono recluse negli OPG, strutture che esistono e che per legge non dovrebbero esserci.
   È senz’altro un segnale positivo di sensibilità quello che ha dato il presidente del Consiglio Monti, ricevendo il presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Servizio Sanitario Nazionale senatore Marino. Monti si è voluto informare sulle questioni principali emerse durante l’attività di inchiesta e in particolare le condizioni di vita e cura all’interno degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari.   

   Questi ultimi costituiscono insieme una vergogna e una barbarie, opportunamente denunciata il 28 luglio scorso dal presidente della Repubblica Napolitano, che in occasione del convegno “Giustizia! In nome della legge e del popolo sovrano” che si è svolto al Senato oltre a individuare “una prepotente urgenza” le annose questioni della giustizia e del carcere, ha testualmente parlato, a proposito degli OPG, di “estremo orrore”.
   Cifre, situazioni, da capogiro, dovrebbero provocare vertigine, sgomento, irritazione, senso di rivolta e senso di ripulsa, per il nulla o il pochissimo che si fa e riesce a fare…E invece niente: silenzio, indifferenza, si china la testa e la si volta in altra direzione. Ed è questo silenzio, questa indifferenza che ancor più inquieta, sgomenta.

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