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Articolo 21 - Editoriali
La Dittatura di un Uomo Solo
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di Franco Bassanini

da L'Unità

Era duro e aspro lo scontro politico - forse come non mai - in quellâ??autunno del 1947, dopo che De Gasperi, di ritorno dagli Stati Uniti, aveva messo fine allâ??esperienza dei governi di unità nazionale fra le forze che insieme avevano combattuto la guerra di liberazione contro il nazifascismo. Ma la Costituzione che alla fine di quellâ??anno fu approvata a larga maggioranza dallâ??Assemblea Costituente, continuò a rappresentare, ciononostante, il prodotto di un lavoro comune, il frutto di una comune passione civile, il risultato di un confronto alto e vero fra le grandi culture democratiche del paese. Perché forte era in tutti la consapevolezza che un popolo può affrontare anche i conflitti più aspri sulle politiche, sulle strategie, sulle riforme. Ma solo se sui principi e sui valori fondamentali della convivenza comune, sulle regole democratiche, sui diritti e sulle libertà dei cittadini vi è viceversa un vero e forte idem sentire. E vi è, in ogni caso, la comune convinzione che principi, valori, regole, diritti e libertà non possono essere lasciati in balìa delle vicende della politica e del variare delle maggioranze. Vanno scritti nella Costituzione, proprio per rappresentare un ancoraggio sicuro, la garanzia offerta a tutti e a ciascuno che gli sconfitti non saranno mai alla mercé dei vincitori, non vittime ma cittadini liberi e forti dei loro diritti. L'esperienza della dittatura era ancora viva nella memoria di tutti. Per sconfiggerla, per riconquistare libertà e democrazia, molti tra i Costituenti avevano rischiato la vita; e quasi tutti avevano perso un amico, un parente, un compagno di battaglia. La Costituzione doveva essere dunque - come ogni Costituzione democratica - una carta di valori e di principi, non immutabile; ma destinata a durare nel tempo; e a cambiare solo allorché le ragioni del cambiamento fossero state, parimenti, il frutto di una altrettanto larga e comune convinzione. Non la prevaricazione di una parte, sia pur maggioritaria.
Ritroviamo qualcosa di questo spirito costituente, di questa comune passione civile, di questo rispetto per i diritti e per le libertà di tutti, nella vicenda che ha condotto, prima il Senato e ieri la Camera dei deputati, a demolire la Costituzione del 1947 e a scriverne una nuova? C'è qualcuno che possa, in coscienza, dare una risposta affermativa? Al massimo si tentano risposte difensive. Non è una nuova Costituzione - si dice - ma solo una revisione parziale della carta in vigore. E la prima parte della Costituzione resta intatta. Falso: nel testo approvato ieri sono, alla fine, più di cinquanta gli articoli modificati; e talora interamente riscritti. E che cosa resta dei diritti e delle libertà sanciti nella prima parte, formalmente intatti, quando le leggi ordinarie (che di quei diritti e di quelle libertà stabiliscono, in concreto, i limiti e le modalità di esercizio) sono nelle mani di una Camera che il primo Ministro comanderà a bacchetta, ricattandola con la minaccia di scioglimento anticipato?
Quanto al metodo. Si può dire che la nuova Costituzione è nata da un confronto aperto e libero? O che il confronto non c'è stato per colpa dell'opposizione? L'opposizione ha fatto la sua parte. Ha avanzato proposte, ha contrapposto argomenti, ha cercato mediazioni ragionevoli, ha tentato per mesi di far ragionare la maggioranza. Ma quest'ultima non ha neppure tentato di aprire un confronto vero. Ricordate? Nell'estate dell'anno scorso, un manipolo di esponenti della maggioranza ha confabulato per qualche giorno tra i monti del Cadore. Il progetto che ne è uscito, recepito dal Governo, ha subito, nel giro di un anno, sette o otto riscritture. Ma nessuna di queste riscritture è stata il prodotto di un confronto con l'opposizione, con i rappresentanti in Parlamento di una buona metà degli elettori italiani. Sono state, al contrario, il risultato di squallidi baratti, di negoziazioni da suk arabo, di mercanteggiamenti notturni nelle stanze di palazzo Grazioli, rigorosamente limitate ai plenipotenziari dei partiti della maggioranza. Ciascuno ha preteso la sua parte, incurante della coerenza dell'insieme. Hanno fatto a pezzi la Costituzione, e ciascuno se ne è preso un pezzo, per cucinarlo secondo la sua ricetta. La costruzione che ne è uscita sembra l'edificio di un architetto pazzo: non rispetta le regole della statica, o - fuor di metafora - i principi del costituzionalismo moderno.
E così: enormi poteri vengono concentrati nelle mani di un uomo solo, il primo Ministro, eletto direttamente dai cittadini. Avrà i poteri del Presidente degli Stati Uniti, più quelli del Primo Ministro britannico, più quelli del Cancelliere tedesco. Ma non incontrerà nessuno dei limiti e dei contrappesi che rendono democratici il presidenzialismo americano, il premierato britannico, il cancellierato tedesco. A differenza di Bush, potrà sciogliere la Camera, mettere la fiducia sulle leggi, pretendere deleghe legislative, scegliere ministri e ambasciatori senza il consenso del Senato. A differenza di Blair, non dovrà dimettersi quando il 51% della sua maggioranza glielo chiede: gli basterà conservare l'appoggio di un manipolo di fedelissimi, per restare inchiodato alla sua poltrona. A differenza di Schroeder, la maggioranza della Camera non potrà sostituirlo: conteranno soltanto, infatti, i parlamentari eletti con lui nelle liste della maggioranza. In diverso modo, Bush, Blair e Schroeder devono fare i conti con un Parlamento forte e libero. Qui il Parlamento viene azzittito e intimorito; ridotto al ruolo del Consiglio di amministrazione di un'azienda diretta da un padrone azionista unico.
So che anche a sinistra il premier onnipotente ha sostenitori, in nome della democrazia di mandato. Ma il popolo non può essere sovrano per un giorno, e suddito per i successivi cinque anni. La dittatura elettiva di un uomo solo non è una forma della democrazia: ne è la negazione. Specie se a quest'uomo, insieme a tutto il potere esecutivo, si dà il potere di condizionare chi fa le leggi: e dunque si dà il potere di decidere sulle regole democratiche, sui diritti e le libertà dei cittadini, sul sistema dell'informazione, sull'indipendenza della magistratura. Come si può ignorare che una Costituzione democratica non ha solo il compito di dare al vincitore delle elezioni gli strumenti per governare (per attuare il programma approvato dagli elettori) ma deve anche stabilire i limiti del potere, gli argini a difesa dei diritti delle minoranze e delle libertà di ognuno? E che questi argini devono essere tanto più alti e solidi, quanto più si rafforzano i poteri della maggioranza e del suo leader? Qui il progetto di riforma rivela le sue più drammatiche lacune. Anziché rafforzare il sistema delle garanzie, lo indebolisce. Mette la Corte costituzionale nelle mani dei partiti della maggioranza. Toglie al Capo dello Stato poteri essenziali di garanzia. Respinge ogni ipotesi di maggioranze qualificate per le scelte che incidono sui diritti, sulle libertà individuali, sul ruolo dell'opposizione.
Da ultimo, ma non per ultimo: con la devolution, la riforma minaccia l'unità nazionale, la coesione sociale, l'universalità di diritti essenziali, come il diritto alla salute e all'istruzione. Ma nel contempo, apre la strada a impreviste rivincite centraliste, dà al Governo e alle burocrazie centrali gli strumenti per soffocare l'autonomia e l'autogoverno delle comunità locali e delle loro istituzioni. Ne esce un federalismo a fisarmonica, che alimenterà la conflittualità fra le istituzioni, i costi per la finanza pubblica, l'insicurezza dei cittadini, le difficoltà e le incertezze delle imprese. Tra la secessione della Lega e il centralismo di AN, il progetto non sceglie una via di mezzo. Ancora una volta, ne dà un pezzo a ciascuno, e la Costituzione ne esce squartata.
Lo scempio è tuttavia così evidente, da aprire, paradossalmente, la strada alla speranza. Non tanto la speranza di un ripensamento, di una resipiscenza della maggioranza, che appare assolutamente improbabile. Né la speranza di qualche incidente di percorso, che certo l'opposizione cercherà di provocare continuando un'aspra battaglia nelle aule parlamentari. Ma è ancora più importante avviare fin d'ora una grande campagna di informazione, di riflessione, di mobilitazione nel paese. La speranza sta nel referendum. Esso non sarà una passeggiata, se non altro perché la riforma costituzionale è lontana dall'esperienza quotidiana degli italiani, ed è dunque terreno aperto alle manipolazioni di chi controlla il sistema dell'informazione. Ma abbiamo già misurato, in questi mesi, che è possibile riunire, intorno alla difesa dei principi e dei valori della democrazia, dell'unità d'Italia, della tutela dei diritti e delle libertà di tutti, uno schieramento assai ampio: organizzazioni dei lavoratori e degli imprenditori, associazioni e movimenti della società civile, e tutti i partiti dell'opposizione, nessuno escluso: nei mesi, la coesione dell'opposizione è cresciuta e si è consolidata.. Ciascuno dovrà fare la sua parte. Non è il momento di dividerci sui diversi progetti di riforma delle nostre istituzioni: ci sarà tempo per discuterne, a partire dalla comune adesione alla bozza Amato. La priorità è, oggi, fermare e sconfiggere questo attacco al cuore della nostra Costituzione democratica. Tutti insieme, possiamo riuscirci.

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