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Articolo 21 - Editoriali
Il nuovo voto americano
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di Marco Calamai*

In un suo recente reportage da Bagdad (Repubblica, 28 novembre) Bernardo Valli ipotizza che in Iraq si stiano creando (â??forseâ?, sottolinea prudentemente) le condizioni per una svolta positiva. Una svolta che oggi sarebbe facilitata dalla sconfitta subita proprio a Falluja dai gruppi terroristici i quali non sarebbero ora più in grado di organizzare i terribili attentati  kamikaze  delle auto bombe. Il che potrebbe rendere più facile la partecipazione alle elezioni del prossimo 30 giugno, tanto volute dal presidente Bush e di cui pochi giorni fa era stato richiesto il rinvio da numerose forze politiche (tra le quali i due principali partiti curdi, diversi gruppi sunniti e lo stesso partito di Allawi). Le stesse elezioniâ? - conclude Valli - â??potrebbero essere, come i partiti che ne hanno chiesto il rinvio pensano, tragedia. Ma qualcosa di profondo è cambiatoâ? Non è mia intenzione polemizzare con questo articolo, di cui per altro condivido molte considerazioni, ma si cercare di rispondere ad alcuni interrogativi, a mio parere cruciali, che non vengono esaminati nel reportage il quale, perciò, rischia di trasmettere ai lettori lâ?? impressione di elementi nuovi  (â??qualcosa di profondo è cambiatoâ?) nella tragedia irachena, che darebbero ragione alla strategia militarista perseguita dai neocons, oggi più forti che mai  dopo la vittoria elettorale della destra repubblicana.
Chi ha voluto le elezioni? La risposta a questa domanda è cruciale per tentare di capire davvero lâ??importanza del prossimo 30 gennaio. Un dato va ricordato: le elezioni non facevano parte del programma iniziale di Bush: il 15 novembre 2003 il proconsole Paul Bremer aveva reso pubblico un programma di â??transizione democraticaâ? che prevedeva come primo passo la formazione di un parlamento non eletto dalla popolazione bensì cooptato dallâ??alto. Il quale, ovviamente, avrebbe nominato un governo â?amicoâ? che avrebbe a sua volta legittimato lâ??occupazione americana. Ma questo programma venne  bocciato senza appello dal grande ayatollah al-Sistani la scorsa primavera, lo stesso periodo in cui Muqtada al Sadr, fino a quel momento additato come â??terroristaâ? dagli americani, scendeva in piazza e occupava Najaf e altri centri sciiti. Un momento cruciale (ricordate lâ??episodio dei ponti a Nassiriya?) che non degenerò in scontro frontale grazie alla mediazione del â??ponteficeâ? sciita, al-Sistani, il quale, appena tornato da Parigi (dove era stato operato) si recò a Najaf ed impedì agli americani di fare ciò che invece è successo mesi dopo a Falluja. Ora gli sciiti stanno lavorando ad una propria lista unitaria per il 30 gennaio, una lista che coinvolge tutti: dal â??radicaleâ? al-Sadr al â??moderatoâ? Chalabi (ieri uomo della Cia, oggi contrario anche lui alla occupazione militare). Le prossime elezioni (se si terranno) non saranno, dunque, una vittoria per i falchi oggi al potere a Washington, ma semmai un successo storico per la maggioranza sciita, divisa sul futuro assetto del regime iracheno ma unita nella determinazione di conquistare (per la prima volta da quando i britannici crearono lâ??Iraq unificando tre province ottomane) il controllo politico del paese. Ed è proprio questo che spiega lâ??attuale posizione, contraria alle elezioni, dei curdi e dei sunniti.
Chi ha paura delle elezioni? La risposta sta nei fatti (la richiesta di rinvio): i due gruppi minoritari. Ovvero i curdi (circa il 15% degli iracheni) che temono di perdere la sostanziale autonomia che si sono conquistati dopo la prima guerra del Golfo  e che sono grati agli americani che li hanno protetti dalla repressione feroce di Saddam grazie alla non fly zone; e i sunniti (circa il 20%) i quali a loro volta temono che le elezioni esprimano un Parlamento a maggioranza sciita contrario al mantenimento del loro tradizionale status politico ed economico (i generosi sussidi tribali e clientelari del sunnita Saddam che sono una delle motivazioni di fondo della generalizzata ostilità sunnita verso lâ??occupazione americana). Nasce qui il pericolo di una visione â??distortaâ? della vicenda irachena: da un lato ci sarebbero i curdi e gli sciiti alleati degli americani (come si potrebbe pensare leggendo il reportage di Valli); dallâ??altro i sunniti, una minoranza non più recuperabile ad un progetto unitario di sovranità irachena e dunque oscillante tra la deriva terrorista (di matrice sunnita, altro punto da sottolineare) e la rivolta ad oltranza contro una occupazione percepita come lo strumento per cementare una sorta di alleanza storica tra sciiti e le forze della coalizione. Una visione â?? sunniti e curdi da un lato; sciiti dallâ??altro -  che tende a sottovalutare quello che invece resta il dato di fondo della realtà irachena: una vastissima avversione nei riguardi degli occupanti e degli americani in modo particolare. Il che non vuol dire, naturalmente, oscurare le divisioni che oggi percorrono la società irachena, lacerata in questo momento da diverse visioni sul come tutelare, nel futuro assetto politico del paese, le specifiche strategie ed interessi delle diverse componenti politiche e religiose, fino a ieri costrette a convivere con la forza da regimi autoritari (il protettorato britannico) o totalitari (il regime di Saddam). Che câ??entra in tutto questo Falluja? Câ??entra e come. Ma non, come sembra pensare Valli, nel senso che gli americani, colpendo duramente il terrorismo islamico (iracheno e non), avrebbero favorito il processo elettorale ma, al contrario, nel senso che la distruzione della cittadina e la strage di civili inermi rischiano di portare nuova linfa al  terrorismo islamico di matrice sunnita che punta a lacerare i già difficili rapporti tra sunniti e sciiti (i secondi duramente accusati dai primi di non essersi mobilitati per la difesa di Falluja) con il fine di destabilizzare ulteriormente la situazione irachena e regionale accentuando così la deriva antioccidentale del mondo musulmano.
Esiste ancora un progetto americano per lâ??Iraq? Si, esiste ed è purtroppo ancora quello iniziale di Bush (la guerra preventiva e unilaterale, lâ??esportazione della democrazia con i fucili). â??La rieletta amministrazione americana sembra più che mai determinata a stroncare con la forza militare la resistenza sunnita, anche se ciò comporta andare a gennaio a delle elezioni non largamente partecipateâ?.  Parole chiare del New York Times (editoriale del 27 novembre) che giustamente si augura un cambio radicale in senso multilaterale dellâ??attuale strategia americana. Se davvero, infatti, si vuole esorcizzare il fantasma della guerra civile in Iraq appare più che mai necessario un accordo, gestito dallâ??Onu, che coinvolga tutte le forze in campo ed in primo luogo i paesi confinanti con lâ??Iraq, da quelli sunniti (Giordania, Siria, Arabia saudita, Kuwait) allâ??Iran sciita. Un accordo a cui devono partecipare le principali forze politiche e religiose dellâ??Iraq e che è possibile solo se gli americani  si impegnano a ritirarsi, in tempi certi, dallâ??Iraq. Ma è proprio ciò che Bush non vuole. 

*da Avvenimenti

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