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Articolo 21 - Editoriali
L'accusa non regge ma chi paga i danni?
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di Roberto Martinelli

da Il Messaggero  

 

AVEVA detto che per la vicenda Sme avrebbe meritato una medaglia e non già un processo. La giustizia ha dato ragione al presidente del Consiglio, anche se per un episodio minore, e che nulla ha a che vedere con la cessione del colosso alimentare, il Tribunale ha dichiarato il non luogo a procedere per intervenuta prescrizione. Tutte le altre formule usate dai giudici per assolverlo dai diversi capi di imputazione non lasciano dubbi sulla sua completa estraneità rispetto ai diversi episodi di corruzione che gli erano stati contestati. L'accusa esce sconfitta da questo processo. Esce sconfitta due volte. In primo luogo per aver voluto il capo del governo sul banco degli imputati oltre ogni ragionevole dubbio sulla sua estraneità ai fatti, peraltro già anticipata nel verdetto del novembre dello scorso anno. In essa il Tribunale aveva sciolto come neve al sole la tesi secondo la quale la sentenza Sme era stata comprata con i soldi della Fininvest. In secondo luogo per la forte determinazione con la quale ha sostenuto la colpevolezza del massimo rappresentante del potere esecutivo fino al punto di chiedere otto anni di reclusione. Una condanna che, se pronunciata, avrebbe portato alle sue dimissioni e al probabile scioglimento delle Camere.  Difficile dire fino a che punto le possibili conseguenze di una simile sentenza hanno pesato sul verdetto dei giudici. Il Tribunale non ignorava certo che una diversa sezione di questo stesso Palazzo di Giustizia aveva assolto, con formula piena, i tre coimputati del presidente dall'accusa di aver comprato e venduto le sentenze che bloccarono il contratto preliminare stipulato tra l'Iri e la Buitoni. Era una decisione che non poteva non influire sul verdetto di ieri, anzi ne era il suo presupposto logico. Nonostante ciò questo Tribunale ha voluto riflettere per due lunghe giornate in camera di consiglio prima di decidere sulla sorte del capo del governo, la cui posizione era stata stralciata dal primo processo grazie alla norma che, allora ma ora non più, sospendeva l'azione penale nei confronti delle cinque più alte cariche dello Stato fino al termine del loro mandato.  Tra novanta giorni si conosceranno anche le motivazioni di questa sentenza che ha disinnescato la più temibile miccia accesa dalla pubblica accusa sotto il palazzo della politica. In attesa di conoscere le argomentazioni usate per consacrare l'innocenza dell'imputato, non è inutile riflettere sin da ora su due aspetti non marginali di questa vicenda e cercare, se possibile, i rimedi necessari. Il primo attiene al paradosso che si sarebbe venuto a creare in caso di condanna. Una soluzione diversa da quella della caduta del governo non sarebbe stata percorribile perché nessun cittadino di questa repubblica avrebbe potuto accettare di avere al vertice del potere esecutivo un uomo colpevole di aver corrotto dei magistrati. Inoltre sarebbe stata la prima volta che la sentenza di un Tribunale avrebbe inciso profondamente sugli equilibri che regolano i rapporti tra i diversi poteri. Di qui l'esigenza di ripensare ad una nuova norma che scongiuri questo pericolo senza nulla togliere all'ordine giudiziario, ma garantendo ai titolari degli altri poteri di portare a termine il loro mandato. Il secondo aspetto attiene al grande valore che deve essere riconosciuto al principio di terzietà del giudice. Il quale, come diceva Sandro Pertini, non deve essere solo autonomo e indipendente ma apparire tale. Questo principio, diventato parte integrante della Carta Costituzionale, è stato rispettato in pieno da questo collegio giudicante che non si è lasciato influenzare dalle pur suggestive tesi della pubblica accusa ed è andato avanti per la sua strada. Resta da chiedersi se sia stato rispettato il principio secondo il quale è fatto obbligo al pubblico ministero di cercare anche le prove di innocenza dell'imputato. A leggere le motivazioni della sentenza che un anno fa, sulla vicenda Sme, aveva assolto gli imputati, qualche dubbio è forse legittimo. Avevano scritto quei giudici che la sentenza la quale bloccò il contratto tra l'Iri e la Buitoni «non presenta alcuna anomalia, tantomeno significativa, di un precedente accordo corruttivo». Un'affermazione che la pubblica accusa, com'è nel suo pieno diritto, ha ignorato o comunque non ha condiviso. Ma conferma come e quanto sia diverso il ruolo del giudice da quello del pm. Con buona pace di chi si oppone alla riforma dell'ordinamento giudiziario che sancisce la separazione delle due funzioni.

 

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