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Disegno di legge n. 1167-b: nuovo tentativo di colpo di mano sui diritti dei precari
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di Domenico d’Amati

Disegno di legge n. 1167-b: nuovo tentativo di colpo di mano sui diritti dei precari

Sta per essere approvato definitivamente dal Senato e trasmesso al Presidente della Repubblica per la promulgazione il disegno di legge n. 1167-B diretto a limitare l’intervento e i poteri del Giudice del Lavoro, nonché a ridurre le tutele dei lavoratori, in particolare dei precari, in evidente contrasto con la nostra Costituzione e con la normativa europea. Il provvedimento, oltre a consentire, sostanzialmente, al datore di lavoro di imporre al lavoratore, al momento dell’assunzione, la rinuncia, mediante clausola compromissoria, a rivolgersi al Giudice del Lavoro e a prescrivere al magistrato di attenersi ai c.d. “contratti certificati”, anche per quanto concerne le facoltà di licenziamento, nonché di astenersi da valutazioni sull’esercizio dei poteri imprenditoriali (aspetti sui quali ci soffermeremo in altra occasione), contiene un tentativo di riedizione del colpo di mano sui diritti dei lavoratori precari, a suo tempo attuato con il Decreto Legge 25.6.2008, n. 112, dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 214 del 14.7.2009.
In materia il disegno di legge n. 1167-B stabilisce, all’art. 34, tra l’altro, che “Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604”. E’ previsto inoltre che questa diposizione trovi applicazione per tutti i giudizi, anche quelli in corso.
La norma dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale, per contrasto con l’art. 3 Cost., intervenne solo sui giudizi in corso nei seguenti termini: “Con riferimento ai soli giudizi in corso alla data di entrata in vigore della presente disposizione, e fatte salve le sentenze passate in giudicato, in caso di violazione delle disposizioni di cui agli articoli 1, 2 e 4, il datore di lavoro è tenuto unicamente ad indennizzare il prestatore di lavoro con un'indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali), e successive modificazioni”.
Le principali differenze del disegno di legge 1167-B rispetto alla normativa dichiarata incostituzionale stanno nel fatto che la disciplina prevista dal disegno di legge non è limitata ai giudizi in corso e fa un espresso riferimento alla “conversione del contratto a tempo determinato”, che riconosce il potere del Giudice di accertare in caso di nullità del termine, l’esistenza di un rapporto di lavoro indeterminato.
Ciò dovrebbe indurre a ritenere che la previsione, nel disegno di legge, di un’indennità (da 2,5 a 12 mensilità) sia unicamente diretta a limitare l’entità del risarcimento, che usualmente viene liquidato dal Giudice per la perdita della retribuzione nel periodo successiva alla illegittima cessazione del rapporto, sino alla pronuncia della condanna alla riammissione del lavoratore in servizio. Attualmente, nel caso che la sentenza venga pronunciata due-tre anni dopo la cessazione di fatto del rapporto, per scadenza del termine illegittimo, il lavoratore, ove abbia offerto la prestazione, ha diritto a un risarcimento commisurato all’intera retribuzione perduta. Si deve ritenere che in base alla normativa recata dal disegno di legge n. 1167-B, fermo restando il diritto alla riammissione in servizio, l’indennità non possa eccedere le 12 mensilità. A questa conclusione, che farebbe salvo il diritto alla stabilizzazione del rapporto di lavoro, conduce anche l’assenza, nel nuovo testo, dell’avverbio “unicamente” presente nella norma dichiarata incostituzionale e riferito alla portata esaustiva della tutela indennitaria.
Ma gli studi legali che normalmente difendono le aziende stanno affilando le armi per sostenere, una volta entrata in vigore la nuova legge, che essa in realtà sostituisce la tutela indennitaria a quella reintegratoria, precludendo così al lavoratore il diritto di ottenere la stabilizzazione, che è il principale obiettivo delle controversie in materia.
Non v’è dubbio che se la tesi datoriale fosse ritenuta attendibile, la questione dovrebbe tornare all’esame della Corte Costituzionale sotto vari profili, tra cui la violazione dell’art. 3 Cost. per l’evidente disparità tra le conseguenze generalmente riconducibili alla dichiarazione di nullità di una clausola contrattuale e quelle previste per i soli lavoratori precari, che quindi avrebbero una tutela giuridica inferiore a quella consentita dall’ordinamento agli altri cittadini in situazione analoga.
In ogni caso la limitazione del risarcimento dovuto al lavoratore con l’introduzione di un limite massimo di 12 mensilità, anche quando l’importo della retribuzione perduta sia superiore, introdurrebbe per i precari una disparità di trattamento rispetto agli altri cittadini, per i quali l’ordinamento non prevede limiti al risarcimento del danno ottenibile nel caso che subiscano un’inadempienza contrattuale. Si configurerebbe inoltre una violazione dell’art. 104 Cost. che garantisce l’autonomia del giudice, nonché l’art. 117 Cost. che impone di rispettare la normativa europea, secondo cui in materia di lavoro precario non è possibile un peggioramento delle tutele (clausola di non regresso recata dalla direttiva 1999/70/CE).
A ciò si aggiunga il contrasto della nuova disciplina con l’art. 47 della Carta di Nizza, recepita dal Trattato di Lisbona, che tutela l’indipendenza del Giudice.


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