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Articolo 21 - Editoriali
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di Montesquieu*

In attesa che questo benedetto congresso rianimi l’opposizione fisiologica, quella che sta fuori dalla maggioranza, è dentro la maggioranza stessa che si esaurisce la dialettica politica.
Un po’ confusamente, senza che si capisca bene chi ce l’ha con chi, salvo il conflitto tra i due presidenti, del governo e della camera. Conflitto dai motivi e dai contorni chiarissimi, almeno fino al confronto di ieri, collocato da molta informazione in campo neutro. Intanto, per capirci qualcosa di come è andata, ci si aggrappa ad un pollice rivolto verso l’alto: un pollice autorevolissimo, ma che, se il legittimo titolare dovesse comunicare per suo tramite, sarebbe sempre rivolto verso l’alto. Altri pollici non se ne sono visti. Poi, un paio di dichiarazioni, perfette per annullarsi reciprocamente.
Troppo poco per interpretare.
Se non si conosce l’esito reale, più chiaro è l’esito auspicato, almeno dalle parti di palazzo Chigi: in cambio di un misterioso, labile patto di consultazione, un po’ di minore rigidità, da parte del presidente della camera, nell’applicazione della regole, un po’ meno terzietà, un po’ più spirito di appartenenza ad una causa da quindici anni comune. Se si realizzasse in questi termini, sarebbe un successo politico del capo del governo, accompagnato da un bel salto all’indietro nella parzialmente ritrovata – proprio grazie al presidente della camera – definizione dei ruoli costituzionali.
L’impressione è che, nell’intera maggioranza, della terzietà del presidente di almeno una delle camere, interessi ben poco, tra i tifosi dell’uno e dell’altro. Anzi. Solo le decisioni e i comportamenti del presidente della camera ci mostreranno se almeno lui ne fa una questione indisponibile e irrinunciabile.
Ma ci vorrà un po’ di tempo, per avere un’idea, qualche settimana, qualche mese, o forse basterà qualche giorno. Dipenderà dalla composizione dell’agenda dei problemi, parlamentari ma anche politici. E se quelli parlamentari sono oggetto di mediazione e trattativa, quelli politici si presentano, come accidenti, quando gli pare.
Chi ritiene che la solidità delle istituzioni, o almeno quel che ne rimane, venga prima di quella della maggioranza, si augura che l’accordo, che ci sia stato o quando ci sarà, non sia quello. Perché scambiare un risultato politico con un valore istituzionale, un presidente di assemblea finalmente al di sopra delle parti con uno consultato sui problemi politici, di merito, della maggioranza, sarebbe un baratto costituzionalmente fallimentare. Di più: lo sarebbe anche se il ventilato patto di consultazione diventasse un vero e proprio patto di codecisione, come si potrebbe pensare che spetti ad un cofondatore.
Fallimentare per più di un verso: perfino politicamente, perché dimostrerebbe la solitudine del consultato, anche nella radiografia del suo vecchio partito. Dover pretendere di essere consultato personalmente, significherebbe o non fidarsi degli altri, o certificare di pensarla quasi su tutto diversamente. Per poi, reindossata la toga del giudice arbitro, trovarsi impegnato a difendere se stesso, ovvero l’accordo siglato con il governo e il suo capo.
Quindi, se accordo c’è stato, o quando comunque ci sarà, c’è da augurarsi che si tratti di una cosa del tutto diversa. Ad esempio, andrebbe bene un patto di consultazione con un’ottica rovesciata: che sia imperniato, cioè, sul rispetto da parte dell’esecutivo delle regole di un corretto confronto parlamentare, e di cui il presidente della camera continui a proporsi come garante. Un patto, invece, che abbia al centro il raggiungimento di intese di merito, oltre alla difficoltà di individuare le necessarie garanzie, toglierebbe autorevolezza e credibilità alle successive decisioni del vertice parlamentare, a quel punto perfino alle più corrette e ineccepibili. Oltre a introdurre, e non ce n’è bisogno alcuno, un nuovo profilo di conflitti di interesse, nel paese dei conflitti di interesse.
In realtà, è il presidente della camera, per come lo abbiamo conosciuto in questa legislatura, a trovarsi davanti ad un dilemma: viene prima la terzietà nello svolgimento del mandato di presidente di assemblea, o un sufficiente tasso di democrazia all’interno del partito di cui bene o male continua a far parte, e magari domani si troverà a guidare? Si tratta di due valori costituzionali, nella mani di un uomo solo. Un po’ come la storiella della capra e dei cavoli. Si potrebbe dire che bastava pensarci prima, ma è un pensiero poco produttivo, per lui e per le istituzioni. Fossimo in lui, ci terremmo stretta la buona terzietà dimostrata fino ad oggi, anche se è all’origine del contrasto: terzietà che è una garanzia, un buon deterrente anche all’altro problema, se la volontà decidente e dominante dovrà continuare, alla fine, a fare i conti con il rispetto dei diritti della maggioranza, oggi sinonimo di governo, ma anche dell’opposizione. 

*da Europa

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