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Articolo 21 - Editoriali
Aung San Suu Kyi, verso una liberazione prossima?
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di Raffaella Tolicetti*

Finita la stagione dei monsoni, soffia un vento di cambiamento sulla Birmania: sembra che i generali al potere siano propensi a modificare la loro linea politica, spinti forse dalla mano tesa dalla nuova amministrazione americana più incline alla diplomazia che all’uso della forza.
Altro elemento a favore del cambiamento è il nuovo rapporto con Aung San Suu Kyi, i cui arresti domiciliari sono stati prolungati dalla giunta proprio ad agosto, dopo l’intrusione di un cittadino americano nella sua casa nello scorso maggio. Se due mesi fa sembrava improbabile un dialogo tra i militari e la leader dell’opposizione, le cose sono cambiate da quando la Dama, come viene chiamata, ha proposto di collaborare con la giunta nell’interesse del paese per superare le sanzioni economiche imposte dalla comunità internazionale. Dopo anni di semi isolamento, sembra che la Birmania voglia finalmente uscire dal torpore ed entrare a far parte della scena mondiale.
Forse il recente scontro con la Cina, per il problema della minoranza Kokang in Birmania (minoranza di etnia cinese discriminata dalla giunta), ha spinto la giunta a diversificare le proprie relazioni internazionali, evitando di diventare troppo dipendente dalla Cina e quindi debole.

Se la giunta militare birmana è riuscita ad imporre nel paese un regime dittatoriale per più di quarant’anni, è proprio perché ha sempre potuto contare sull’appoggio di paesi amici, di solito autoritari anch’essi, e soprattutto clienti fedeli ed avidi delle numerose risorse naturali presenti nel sottosuolo birmano. Così Russia, Cina e Corea del Nord, ma anche Iran, hanno sempre fatto affari con i generali diventando i principali azionisti delle aziende che estraggono gas e petrolio in Birmania. Il loro sostegno è fondamentale anche nella costruzione di un arsenale nucleare birmano, che ha creato non poco allarme fra gli esperti internazionali, convinti che la la giunta militare potrà disporre di una bomba atomica fra cinque anni, secondo quanto dichiarato dal Sydney Morning Herald nell’agosto scorso.

Ma gli equilibri stanno cambiando, e la giunta ha bisogno di allargare le sue alleanze, se vuole evitare di essere solo una pedina nelle mani di Cina o Russia. La cosa che sta più a cuore alla comunità internazionale rimane la tutela dei diritti umani, ampiamente calpestati nel paese. Ma da settembre la giunta sembra disposta a fare passi in avanti e a lasciar cadere la maschera di oppressore, moltiplicando i gesti simbolici. A settembre sono stati rilasciati 7114 prigionieri tra i quali 87 erano prigionieri politici. Ad ottobre Aung San Suu Kyi ha incontrato due volte Aung Kyi, il ministro del lavoro della giunta, dopo che la leader democratica aveva mandato una lettera aperta alla giunta con una proposta di collaborazione contro le sanzioni che colpiscono il paese. Finora la Dama aveva sempre appoggiato le sanzioni contro il regime, ma sembra che il discorso che il segretario di stato americano Hillary Clinton ha pronunciato all’assemblea delle Nazioni Unite, annunciando un “ritorno nell’Asia” ed un maggiore coinvolgimento del paese a favore della tutela della democrazia, abbia aperto uno spiraglio di luce e di speranza.
Poco dopo, il primo ministro Thein Sein ha annunciato, durante un vertice dell’Asean, che Aung San Suu Kyi potrebbe essere liberata a breve. È passato meno di un mese da quella dichiarazione e continuano a circolare le voci circa una sua prossima liberazione. Si moltiplicano anche i contatti tra ufficiali birmani e internazionali: il 4 novembre una delegazione americana capeggiata dal deputato Campbell ha incontrato la leader che è apparsa pubblicamente all’evento. Nella mattinata, la stessa delegazione aveva incontrato il primo ministro Thein Sein. Lo stesso presidente Obama ha reiterato il suo appello per la liberazione della Dama e degli altri prigionieri politici in occasione del vertice dell’Apec tenutosi a Singapore, in quello che è stato definito un evento storico, dopo più di 40 anni dall’ultimo incontro tra un presidente americano e un leader della giunta.
Intanto il 13 novembre la Corte Suprema birmana ha accolto l’appello di Aung San Suu Kyi contro il verdetto del suo processo conclutosi il 18 agosto scorso, che l’ha vista ricondannata agli arresti domiciliari per due ulteriori anni. Se la giunta decidesse di liberarla, questa è l’occasione perfetta. Come ha influenzato il verdetto della condanna, Than Shwe potrebbe, in senso inverso, influenzare la decisione del rilascio. E segnare una svolta storica nella storia birmana.
*freeburmaitaly

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