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Articolo 21 - Editoriali
Industria sarda: dopo promesse e bugie oggi la realtà è tragica
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di Ottavio Olita

Ogni giorno in Sardegna, la terra che si è fidata delle promesse elettorali di Berlusconi per cacciare Renato Soru ed eleggere al suo posto Ugo Cappellacci, il sogno rutilante di un nuovo sviluppo economico viene spazzato via da una crisi che solo i ricchi possono combattere “con l’ottimismo e pensando in positivo”. Gli operai delle industrie, dal petrolchimico di Porto Torres, a quelli di Ottana e della Sardegna centrale, a quanti lavorano nell’area del Sulcis, stanno lottando disperatamente perché le loro fabbriche non chiudano.
 L’ultima vergogna – ma qui si teme solo in ordine di tempo – è la vicenda “Alcoa”, la multinazionale che produce alluminio e che nella fabbrica di Portovesme, vicino a Portoscuso, e a Fusina, in Veneto, ha due capisaldi. Qualche giorno fa al ministero della sviluppo economico, con toni vittoriosi, s’era detto che l’azienda aveva deciso di ritirare i provvedimenti di licenziamento, già pronti, per i circa mille operai. La decisione derivava dall’iniziativa dell’Unione Europea che chiedeva la restituzione di 420 milioni di euro – poi ridotti a 300 milioni – dei fondi ricevuti dalla multinazionale quali aiuti di Stato per ridurre i costi elevatissimi del consumo d’energia. Non sono passate 48 ore dal grande annuncio che l’Alcoa Europa ha sconfessato il responsabile italiano della stessa società e ha diffuso una nota con la quale ha confermato i licenziamenti. Immediata la risposta operaia: occupazione dello stabilimento, volantinaggi, dopo che solo due giorni prima, a Roma, gli stessi dipendenti erano stati manganellati dalla polizia soltanto perché chiedevano la tutela del posto di lavoro. In serata, probabilmente solo per tentare di ridurre la tensione, altissima, la comunicazione di un rinvio di 15 giorni d’ogni decisione. Gli operai hanno deciso di continuare a presidiare la fabbrica.
 Dalla parte opposta dell’isola, 300 chilometri a nord, a Porto Torres, altra situazione disastrosa negli impianti chimici della Vynils. Minacce di cassa integrazione e chiusura. Grande incertezza. Cinque operai hanno deciso di cominciare lo sciopero della fame e sono ormai giunti al quarto giorno.
 Ad Ottana, infine, nel cui territorio industriale si contano già ben 2.600 provvedimenti di cassa integrazione, la situazione più critica è alla “Equipolymers”. In questo caso, per uscire dal rischio chiusura e licenziamenti dei dipendenti, c’è una prospettiva di vendita che non si riesce ancora a concretizzare.
 Accanto ai circa 1.300 operai a rischio, se ne devono contare almeno altrettanti dell’indotto. Quasi tremila famiglie per le quali la tornata elettorale dello scorso febbraio era stata una iniezione di illusioni e speranze, poi spazzate via dalla prima verifica concreta.
 Il sindacato è impegnatissimo nella tutela dei posti di lavoro, meno attive le forze politiche d’opposizione che paiono non rendersi conto che è su questa quotidianità che si decidono le scelte future degli uomini e delle donne, dei giovani e degli anziani che vivono in un territorio. E distratte non sono solo le forze politiche, lo sono anche le istituzioni. Martedì scorso il consiglio regionale sardo ha deciso di recarsi a Nuoro per una seduta solenne decentrata. Ma invece di rendersi disponibile all’ascolto, l’assise solenne ha fatto discorsi che avrebbe potuto benissimo affrontare restando ferma nel palazzo di via Roma a Cagliari. Due ore e mezzo di chiacchiere, poi tutto l’apparato è stato smontato ed è tornato nel capoluogo.
 Quarant’anni fa, in piena Prima Repubblica, ci fu ben altra attenzione verso la grave situazione sarda. Giuseppe Fiori la descrisse brillantemente in uno dei suoi libri più belli, “La società del malessere”; il Parlamento volle conoscerla direttamente e istituì una commissione d’inchiesta sui fenomeni di banditismo. La presidenza fu affidata al senatore Medici e da quella approfondita analisi nacque il progetto dello sviluppo industriale nell’isola. Certo, ci sono state distorsioni e a volte se ne sono avvantaggiati speculatori, ma per oltre due decenni  intorno alle buste paga degli operai dell’industria si è costruita una nuova economia.
 Ora tutto questo sta crollando. Di fronte alle tante falle, operai e loro rappresentanti sindacali tentano di mettere delle pezze, ma non si può continuare così. E’ indispensabile un nuovo programma di reindustrializzazione oppure di riconversione discusso e deciso dall’esecutivo, dai rappresentanti eletti e dagli imprenditori privati. Appartenere ad uno Stato significa anche questo. Il rischio è che gli operai sardi e le loro famiglie si sentano abbandonati a se stessi e non si riconoscano più negli organismi istituzionali che hanno il dovere di intervenire. E la cosa più grave è che le forze politiche, abbagliate dalle risse romane, non si rendono conto della gravità di quanto sta accadendo sul piano delle  coscienze individuali e collettive.

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