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Articolo 21 - Editoriali
La mafia, Don Puglisi e il mio film sull´amore
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di Roberto Faenza*

da La Repubblica

Prima di lanciarmi nell´avventura di un film sulla vita di Don Puglisi, ho pensato a lungo a quello che volevo realizzare. Ho scartato in partenza l´idea del film di diagnosi per due motivi: perché i nostri grandi maestri lo avevano già fatto e perché sento che gli strumenti della ragione non sono più sufficienti a penetrare la complessità della realtà in cui viviamo.
Nel suo bell´articolo, ispirato alla visione del film, Giuseppe D´Avanzo si chiede chi abbia vinto tra Puglisi e i suoi assassini.
Con amarezza, risponde che "hanno vinto i mafiosi e padre Puglisi non è stato mai in partita". A questa prima domanda ne segue un´altra: può l´emozione contribuire alla conoscenza del fenomeno mafioso, o non è più incisivo quel cinema del passato, capace di "una diagnosi sociale, politica, culturale"?
Ho riflettuto su queste domande e sugli strumenti della ragione. La cultura occidentale, lo sappiamo, è figlia del secolo dei lumi. Per molto tempo l´illuminismo ci ha abituati a osservare tutto alla luce della ragione, dimenticando che esistono altri strumenti di conoscenza, ad esempio le intuizioni e le emozioni. "L´emozione non inganna", ha detto dopo la visione del film Gustavo Zagrebelsky, noto per le sue acute analisi sul senso della legge e della ragione. Nell´accostarmi alla figura di Don Puglisi ho pensato proprio a questo: se avessi percorso solo la strada della ragione o dell´indagine sociale, avrei portato sullo schermo qualcosa di riduttivo. Puglisi non era un uomo che lavorava solo di ragione. Aveva scelto di accostarsi ai bambini che voleva togliere dalla strada, sottraendoli al dominio della mafia, parlando un altro linguaggio, un´altra sintassi: quella dell´amore, della verità, della giustizia. Se avesse seguito solo la strada della ragione non lo avrebbero capito e non avrebbe avuto ragione. Penso ad esempio all´intelligenza del suo metodo. Per entrare in comunicazione con quei ragazzi abbandonati da tutti, dallo stato, dalla scuola, dalla famiglia, aveva capito che la ragione da sola non pagava. Decise pertanto di farli giocare a pallone per insegnargli l´importanza delle regole, cioè della legge. E se avesse seguito solo la ragione, se la sarebbe data a gambe, anziché aspettare i suoi assassini. Lo ricorda lo scrittore siciliano Vincenzo Consolo, ben sapendo che lo avrebbero ammazzato, esattamente come Robert Jordan attende i suoi aguzzini in "Per chi suona la campana", di Hemingway. C´è una grandezza in personaggi come don Puglisi che la sola ragione non può descrivere. E´ lo stesso limite di gran parte del cinema hollywoodiano, penso per esempio al "Padrino", in cui i boss mafiosi vengono dimenticati come tali e descritti come eroi. La fascinazione del mafioso rischia di far dimenticare la sua miseria e la sua bassezza. "Chi usa la violenza non è un uomo, è una bestia", esclama don Puglisi sfidando i mafiosi a voce alta. Altro che personaggi degni di fascinazione. Quei boss sono non-uomini, capaci solo di seminare morte e violenza. Hanno vinto i mafiosi perché Puglisi è morto e loro invece no? Non credo proprio. Le idee e gli ideali possono essere oscurati, ma non sconfitti. Per entrare in comunicazione con la gente spesso bisogna saper parlare anche il linguaggio delle emozioni. Don Puglisi era innanzitutto un sognatore, un credente dalla fede più profonda, anche nella utopia, come i martiri cristiani, che pur mandati a morte hanno vinto nel tempo. Non lo fosse stato, non avrebbe accettato di diventare parroco a Brancaccio, uno dei quartieri più a rischio di Palermo, dove i boss mafiosi avevano partecipato alla uccisione di Falcone e Borsellino, nonché alle stragi di Firenze, di Roma e di Milano. E´ stato ucciso, è vero. Ma non è stato sconfitto, perché il suo sogno e i suoi ideali sono vivi e forti. Accreditando il potere della mafia, o peggio la sua vittoria, c´è il rischio da parte di tutti noi di accettare lo status quo e di abbandonare ogni forma di lotta. A Palermo anche oggi ci sono decine di individui e di parroci che lavorano nell´ombra, come le formiche, lontani dai riflettori, mentre le cicale vengono esaltate dai media in generale e dalla televisione in particolare. Ha ragione D´Avanzo quando accusa i media di essere "prigionieri di una cronaca che si è fatta muta". Ma attenzione alle diagnosi della sola ragione, spesso incapaci di cogliere il mondo dei sentimenti e delle emozioni. Faccio un esempio: quando ho girato "Jona che visse nella balena", il film su un bambino che sopravvive al campo di concentramento di Bergen Belsen, dove perderanno la vita il padre e la madre, ho pensato che se volevo entrare in comunicazione con un pubblico di giovani avrei dovuto inseguire un altro tipo di linguaggio. Lo stesso principio l´ho seguito in "Prendimi l´anima": alla luce della sola razionalità non avrei potuto restituire alla memoria un personaggio come Sabina Spielrein, sopraffatto dalla razionalità di Freud e di Jung, i primi a non averne capito la ricchezza e la complessità. In questo mio ultimo lavoro, "Alla luce del sole", più mi sono lasciato andare alle emozioni e più ho imparato particolari e verità che né i giornali, né i libri, né le tante testimonianze mi hanno svelato. L´assassinio di Puglisi è stato un crimine annunciato. Ma la radiografia e la capacità di diagnosi dei tanti esperti e dei numerosi conoscitori della mafia non lo avevano previsto. Eppure è stato compiuto sotto gli occhi di tutti, delle autorità, delle istituzioni, dei politici e della chiesa stessa. Don Puglisi e i suoi collaboratori lo avevano intuito, perché erano stati capaci di coglierne i segnali. La lezione che possiamo trarre da questa vicenda è che se ci affidiamo alla sola ragione, rischiamo la paralisi, tanto deprimente è la realtà. Oscar Luigi Scalfaro dopo la visione del mio film ha detto che è stato un pugno allo stomaco che lo ha fatto piangere. Ben venga la capacità di percepire il male rendendolo insopportabile.

* regista del film - "Alla luce del sole" 

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