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Articolo 21 - Editoriali
Beniamino Placido: il gusto e la curiosità del futuro
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di Renato Nicolini

Anche la morte di Beniamino Placido misura lo scorrere impietoso del tempo. Da un decennio Placido, che per riservatezza non aveva reso nota la malattia che l’aveva colpito, si era appartato dai media. Ma non è questione della sua assenza, la società italiana è profondamente cambiata da quella degli anni Settanta ed anche da quella degli anni di Craxi. Deformandosi fino a perdersene la memoria, il contesto cui apparteneva, come per tutti i precursori, l’importanza del pensiero e degli scritti di Beniamino è diventata forse meno evidente. Per capirla, bisogna ritornare indietro nel tempo, alla crisi che la società italiana attraversa negli anni Settanta. Una crisi molto diversa da quella attuale, perché era una crisi di crescita, che non si affidava al paternalismo autoritario, ma alla ricerca, anche disordinata e contraddittoria, di nuove sensazioni ed esperienze e di nuove forme di partecipazione attiva: un magma vitale in cui nuove forme di creatività, contestazione politica, autonomia e la sponda estrema del terrorismo si mescolavano. Dispiace che si sia imposto, per definirli, il luogo comune degli “anni di piombo”, che non riassume la complessità di allora. Beniamino Placido vive il suo momento decisivo d’intellettuale proprio allora.
 La TV si esauriva ancora nella sola RAI, programmaticamente in bianco e nero per non incoraggiare il consumismo (aleggiava su tutto l’egemonia culturale nel PCI del catto-comunismo di Franco Rodano, resa visibile dall’austerità che nel ’73 reagiva alla crisi petrolifera spengendo le luci della città, anticipando l’orario dell’ultimo spettacolo e dell’ultima corsa d’autobus…), due canali, pochi film programmati nella settimana per “proteggere” le sale cinematografiche. Tutto insieme, arrivano il colore, le TV private, lo zapping tra cento canali, la concorrenza selvaggia. Beniamino Placido, ex funzionario della Camera da cui si dimette per accettare la cattedra di professore di letteratura americana, ma già comparso – assieme ad Alberto Abruzzese – nei primi film di Nanni Moretti, non si rinchiude nel fortino del tempo passato, ma capisce immediatamente tutte le virtù del collegamento e della connessione. Sa subito guardare la nuova televisione con la mentalità della rete, come qualcosa che ci può connettere in tempo reale con quello che accade nel mondo. La vive e interpreta, piuttosto che come globalizzazione uniformante delle opinioni ridotte a una sola dalla logica dell’Auditel, come stimolo incessante di approfondimento culturale,  grande occasione per le posizioni di nicchia, per le interpretazioni eretiche, per il gusto dei collegamenti impertinenti che magari ti facevano ritrovare Manzoni nella DC, per i minoritari di tutto il mondo. Il crollo del monopolio della RAI TV, la crisi irreversibile della misura pedagogica in cui costringere la cultura e misurarne il valore, il gioco ludico condotto senza opinioni preconcette, promettono per lui conflitto, contraddizione, pluralismo. Crescita della conoscenza, anziché suo impoverimento. Era inevitabile il suo incontro con l’Estate romana. Placido fu uno dei primi e più convinti estimatori di Massenzio, credo sia stato lui ad inventare il vocabolo “massenziente”, con l’accezione positiva che lo distingueva dai tanti critici “di sinistra” che rimproveravano alla rassegna persino Dario Argento. Seppe subito riconoscerne il legame con i tanti volti della città di Roma, di cui è impossibile scoprire il segreto, non perché non ne abbia, ma perché ne ha troppi per ridurli ad uno solo. Beniamino Placido finì per condurre, assieme a Tommaso Chiaretti, divenuto suo collega di lavoro a “Repubblica” e che gli assomigliava per anticonformismo (ma non per la visione positiva, ne era un po’ il controcanto con una sfumatura di pessimismo…), gli eventi e gli incontri della mostra La città del cinema che voleva prolungare quelle emozioni d’inverno al Palazzo delle Esposizioni. Fu anche uno dei primi – se non il primo in  senso assoluto - a comprendere che quella fase di luna di miele non poteva durare in eterno. Il 15 agosto 1981 scrisse così per “Repubblica” un importante articolo, Nicolini, le mongolfiere non bastano. Le mongolfiere erano quelle della festa dei quattro elementi barocchi, che erano volate il 1 maggio 1981 sopra piazza del Popolo. Ma la sua non era una presa di distanza, perché il 1981 fu un anno straordinario, ancora molto creativo per l’Estate romana, l’anno della proiezione del Napoleon di Abel Gance, restaurato da Francis Ford Coppola ed accompagnato dal vivo dalle musiche suonate dall’orchestra dell’Opera diretta da Carmine Coppola, un evento che trasformò l’estate romana in modello per la Francia di Jack Lang ed attrasse l’attenzione della città di Los Angeles.  Rileggendolo oggi, quell’articolo ha l’esatto senso del suo titolo: non bastano gli eventi per straordinari che siano, occorre qualcosa di più: la capacità di connetterli ad un’offerta  complessiva, al sistema delle istituzioni, dei servizi e dell’industria culturale, e soprattutto al meccanismo dell’informazione. Senza quel salto di scala, sarà la logica tendenzialmente impoverente dell’informazione, la sua tendenza a ridurre tutto a un’unica causa a fagocitare eventi che nascevano come gioco libero e disinteressato.
Naturalmente Placido diceva queste cose meglio di quanto non stia facendo io. I suoi brevi scritti, dall’apparenza d’occasione, erano segnati dal gusto dell’ossimoro, dell’accostamento imprevedibile. In questa capacità di connessione di opposti apparenti, è stato maestro a tutti, e ci ha indicato così la strada della modernità non subita fatalisticamente come una jattura, ma come situazione su cui intervenire senza rinunciare all’acutezza della propria sensibilità critica. All’opposto dell’Angelus Novus di Walter Benjamin, che, trascinato dal vento impetuoso del futuro, seguita a guardare ostinatamente indietro, al passato, Beniamino Placido aveva il gusto e la curiosità del futuro. Anche se ridotto a semplici connessioni, ad accenni, nei suoi scritti si sente (per quanto l’autore si sforzi a negarla) l’ombra del progetto. Beniamino aveva un suo tocco particolare, analogo al Lubitsch touch, che faceva scomparire la seriosità dalla cultura, che trasformava i collegamenti più impervi in una larga strada, dall’apparenza facile, lungo la quale il lettore era rassicurato e condotto per mano. Caro Beniamino, ci mancherai.
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