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Articolo 21 - Editoriali
Il gioco della ‘ndrangheta: un voto calabrese al posto di un nero migrante
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di Giulia Fresca

Era il mese di novembre 2004 e sulle pagine regionali de “il Quotidiano della Calabria”, scrivevo un articolo dal titolo “La Calabria che non c’è”. Oggi, con grande tristezza, mi accorgo che a distanza di poco più di cinque anni quelle mie umili riflessioni sono ancora valide ed attuali!
«La Calabria al centro dell’attenzione mediatica italiana, la Calabria come laboratorio politico, la Calabria come motivo di spartizione del potere nelle altre regioni, la Calabria infine come motivo di risveglio delle Associazioni e dei movimenti per essere presenti nel momento storico che si sta vivendo.
Ma la vera protagonista è “la Calabria che non c’è”, quella emarginata, quella che combatte contro i problemi quotidiani, quella che vede tutti i suoi sacrifici buttati al vento, tutti i risparmi di una vita andati in fumo, che vede i suoi figli partire in cerca di fortuna.
Questa Calabria non è rappresentata da nessuno, eppure esiste ed è l’anello forte del consenso elettorale, è quell’insieme di persone che può fare la differenza, ma che, al tempo stesso, nella debolezza e fragilità é facilmente ricattabile ed “acquistabile”.Non esiste un ceto definito…, non esiste una categoria definita; dal piccolo imprenditore che si scontra con una burocrazia imperante ed un accesso al credito paralizzante, al professionista che deve sottostare ai ricatti di quanti operano nei vari settori imprenditoriali, alla casalinga che deve stringere i denti per portare il menage familiare a fine mese, all’agricoltore che oltre alle intemperie ha come nemico chi consente che sul mercato ci sia il libero accesso della merce che egli stesso produce ma che proviene da altri stati ed a prezzi più bassi, allo studente, che per non essere considerato inferiore al target che la pubblicità e la moda impongono, entra nel giro vizioso della malavita e brucia i suoi migliori anni, infine , a quanti debbono sottostare al mobbing sul posto di lavoro per non perdere quell’unica fonte di sostentamento per sé e la propria famiglia.
Questa è la “Calabria che non c’è”, che non siede al tavolo delle trattative, che non ha delegati, che non ha la forza di gridare perché è soffocata dal bisogno, una Calabria senza voce e senza più speranze, una Calabria senza sogni e senza futuro. Una Calabria di ieri e di oggi! Il domani potrebbe essere diverso se solo si desse la reale dimostrazione che si vogliono cambiare le cose. Non bastano le buone intenzioni ed i buoni propositi, non sono sufficienti gli slogan, occorre avere il coraggio di denunciare pubblicamente quello che non va e bisogna stare vicini e sostenere quanti hanno il coraggio di farlo.
Le Istituzioni per prime, i partiti a seguire. Bisogna cominciare ad estirpare platealmente e pubblicamente i mali di questa società: il capo ufficio che esercita il mobbing deve essere licenziato, il tecnico comunale che chiede tangenti per l’approvazione dei progetti deve essere rimosso dall’incarico, la banca che non vuole agevolare la crescita della Regione deve essere messa nelle condizioni di chiudere gli sportelli affinché non usufruisca ulteriormente dei vantaggi ad essa derivanti e così via. Bisogna avere il coraggio di riazzerare i ruoli, di guardare con attenzione ad ogni singolo ed alla sua comunità, non bisogna generalizzare i problemi ma bisogna guardarli nel loro contesto più intimo. La Calabria è varia e diversa e purtroppo le commistioni con quanto c’è di negativo sono reali e percepibili quotidianamente. Bisogna tenerne in debito conto ed operare allo sradicamento culturale di certe concezioni, ma soprattutto bisogna lavorare per creare l’alternativa vera alla risoluzione delle problematiche: non è sufficiente creare un fondo di sostentamento per i giovani neo laureati affinché restino in Calabria, il giovane deve essere realmente inserito in un contesto lavorativo attraverso la creazione di strutture sul territorio che incentivino la ricerca e le aspettative occupazionali; non basta condannare il lavoro nero, bisogna aiutare quelle braccianti che in questi giorni raccolgono le olive e che nel resto dell’anno sono sempre sotto la tutela dei “caporali” affinché godano dei diritti che sono loro negati da quanti percepiscono i benefici senza aver mai toccato la terra. Solo se si lavorerà in questa direzione si potranno cambiare le cose, solo se ci si occuperà dei problemi veri a cominciare da quelli primari, si potrà sperare in un futuro diverso. Solo dando voce alla “Calabria che non c’è” si può ridurre il gap dell’omertà e si può dare una nuova energia alla nostra Regione».
Quanto avevo scritto è rimasto invariato. Oggi si aggiunge il ritorno agli onori della cronaca della parola ‘NDRANGHETA, la più forte organizzazione criminale presente nell’intero Pianeta. Oggi quella parola fa paura perché è presente dappertutto e non è fatta di sicari armati fino ai denti, né di “tamarri calabresi con la coppola e l’accento reggino”. No! La nuova ‘ndrangheta è fatta di colletti bianchi, è presente a tutti i livelli dell’ “ascensore” sociale, è piena di professionisti e manda i suoi figli a studiare nelle più costose università italiane. Solo il piccolo “bullo” di paese manda il proprio figlio all’Università della Calabria o alla Mediterranea di Reggio Calabria, il capo boss lo manda a Roma magari a La Sapienza o a Milano alla Bocconi, per imparare a masticare di leggi e di economia. Poi magari gli costruisce intorno un alone di legalità autorizzandolo a mettere in piedi un’associazione contro tutte le mafie, che non sarà mai “toccata” da nessuno semplicemente perché è “ben protetta”. Nel frattempo che queste giovani leve si facciano strada nel mondo pulito, con un accento “italiano”, con un buon pezzo di carta e magari qualche “ospitata” nella tv che conta, tanto per mantenere vivo il nome nella memoria, le attività criminali continuano. Spartizione del potere politico, spartizione del potere sulle persone, gestione dei fondi comunitari, gestione del risparmio attraverso le banche di credito locali, riciclaggio di denaro sporco grazie ai grossi centri commerciali che fanno da “lavatrice” ed alle costruzioni, siano esse frutto della legge 488 e similari, o con opere pubbliche e palazzine private che nessuno mai acquisterà. E poi ci sono gli ospedali fantasma, i primariati da sistemare e le fondazioni oncologiche che macinano quattrini in una terra dove la gente muore per cardiopatie. E ci sono loro: gli extracomunitari, e non solo di Rosarno. Non passerà molto tempo che saranno presto rimpiazzati. Abbiamo i rumeni peraltro europei ed i cittadini dell’est, ma a prendere il posto di quelli che dovevano lavorare una terra dove i proprietari hanno preferito far marcire i frutti perché non conveniente rispetto ai prezzi della Comunità europea, molto probabilmente ci saranno gli stessi calabresi. Trecento persone aspettano il licenziamento solo al Porto di Gioia Tauro e ciò significa un pacchetto di voti non indifferente, tenuto conto dei parenti, amici, ed altro, da coinvolgere magari per “votare” il caporale di turno. Per non parlare dei tanti disoccupati ed inoccupati che già riempiono le liste, purtroppo in continuo aggiornamento con numeri sempre crescenti.
Ma chi sono i caporali? È gente fidata dei boss, dei sindaci, dei proprietari terrieri, dei titolari di aziende. Gente senza scrupoli che nello stesso pulmino porta gli uomini a sul luogo del “lavoro” e poi carica le donne da lasciare sulla strada della prostituzione. La tratta delle bianche, delle nere, dei bambini al servizio dei pedofili è tutta in mano loro. Caporali al servizio dei capicosca che attendono i figli con la laurea in mano e lo “studio” a Roma o a Milano, magari per farli candidare ai vari governi, perché, si sa ormai, che i veri boss non sono quelli che si conoscono, i cui nomi circolano anche sul web, ma coloro che sono nascosti nelle pieghe della società della “Calabria che (invece) c’è nei posti che contano” .

 

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