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Articolo 21 - Editoriali
Calcio razzista: punirne venti milioni per educarne diecimila
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di Simone Luciani

Deve essersi reso conto di essere uscito (e di brutto) dai binari con il surreale intervento sugli schiavi di Rosarno. Così, Roberto Maroni ha provato a recuperare e a ripulirsi l’immagine (la coscienza?) con il tema, popolare e trasversale, della lotta al razzismo negli stadi. Ma, al solito, lo ha fatto restando fedele e aderente alla linea (ideologica) di questo governo, che altre risposte non contempla che quelle dei divieti, dei reati, delle multe, delle sospensioni. Delle partite, in questo caso. Certo di essere appoggiato da quasi tutti (come puntualmente è avvenuto), Maroni ha proposto lo stop delle partite laddove il pubblico insceni cori razzisti, come l’imitazione idiota del verso della scimmia. Dimenticandosi di aggiungere che una circolare in merito (molto discutibile, per i motivi che vedremo) c’è già. Dunque, quale sarebbe la novità? Che spetterebbe all’arbitro prendere “provvedimenti conseguenti” (citando Maroni). Dunque, sospensione temporanea e, come suggerisce Platini, se necessario definitiva. Tutti a casa. Su decisione non del funzionario di pubblica sicurezza (che, per definizione, conosce la realtà locale e dunque può prevedere le ripercussioni della sospensione della partita), ma dall’arbitro. Come se avesse già pochi motivi per sentirsi odiato. Di qui, la polemica fra Ministero dell’Interno e Federcalcio.
Ma la domanda di fondo è un’altra: è davvero giusto mandare a casa (fra beceri ululati) razzisti e terzomondisti, i cento imbecilli e i 50 mila tifosi (che in tutta Italia, tv comprese, fanno qualche migliaio contro diversi milioni), il bambino e l’acqua sporca? L’impressione è che spesso i provvedimenti che riguardano il calcio (trattato ormai dalla politica come esclusivo fattore di ordine pubblico) dimentichino alcuni dei principi basilari del nostro ordinamento. Come il diritto e la responsabilità individuali. Esiste o no un diritto a godersi una partita per la quale si è pagato un biglietto o un abbonamento? Esiste la possibilità di non essere trattati come chi emette versi animaleschi quando è in possesso di palla un giocatore nero? Esiste, infine, l’ipotesi di non darla vinta ai soliti gruppetti di bulli?
Quella della sospensione della partita appare la consueta scorciatoia (finta) per affrontare un problema complesso, che origina nella capacità del calcio di esaltare i sentimenti (quelli positivi come la passione, quelli negativi come il razzismo) e di dare risalto a fenomeni sociali che, è bene sottolinearlo, non nascono (e meno che mai moriranno) durante 90 minuti più recupero e intervallo di ogni maledetta domenica, ma durante il resto della settimana fuori dai cancelli e dentro la società. Né è stato mai spiegato cosa significhi, materialmente, spingere questi gruppuscoli “all’isolamento” da parte del resto della tifoseria, e in cosa consista concretamente questo potere, sbandierato di solito come motivazione per prendere simili decisioni.
Provvedimenti di questo genere, purtroppo, sembrano sempre di più delle foglie di fico che coprono due realtà scomode: l’incapacità di individuare, da parte di forze di pubblica sicurezza o degli steward, i responsabili di queste gravi offese nei confronti dei giocatori; e, soprattutto, l’immobilità totale che traspare dall’operato delle società. E’ proprio dalle società e dalla loro completa responsabilizzazione che deve (ri)partire la battaglia al razzismo e alla violenza: con la repressione (dei veri responsabili, se possibile…), ma soprattutto con l’educazione. Dunque, con campagne informative e pubblicitarie su temi verso i quali i calciatori e gli allenatori si sono sempre mostrati assai più sensibili dei loro datori di lavoro.
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