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Articolo 21 - Editoriali
Vita e Morte di un giornale
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di Luca Landò*

da "l'Unità" - (29/3/2004)

Quanto dura una bestemmia? Un soffio, un secondo, il tempo di superare lâ??imbarazzo? La Voce, nata il 22 marzo di dieci anni fa, durò 13 mesi e 21 giorni. Ma che si trattasse di una bestemmia, editoriale sâ??intende, ci sono pochi dubbi. La minigonna di Montanelli, come poco elegantemente venne definito quel giornale troppo giovane per un grande vecchio, fu un autentico dito nellâ??occhio. 
La prima scossa arrivò il 9 gennaio â??94 quando Montanelli, rientrato da un pranzo con lâ??editore Berlusconi, si presentò nella stanza di Federico Orlando, suo condirettore al Giornale, con ancora indosso il lungo cappotto di cammello. Chiuse la porta e gli disse secco: «Domani io e te ce ne andiamo ». La seconda, una serie di scosse per la verità, quella che i geofisici chiamerebbero uno sciame sismico, arrivò pochi giorni dopo quando una quarantina di giornalisti decisero, nel giro di poche ore, di lasciare il Giornale, abbandonando un posto al sole (anche se un sole coperto da nubi inquietanti e poco convincenti) per entrare nel cono dâ??ombra dellâ??incertezza. Perché la Voce era tutto fuorché un giornale solido. Câ??era poi un terzo tipo di scosse, periodiche e regolari: quelle che provenivano ogni sera dalla tipografia quando Vittorio Corona, art director e vicedirettore, sedeva accanto ai due maghi della â??computer graphicâ? per partorire i fotomontaggi della prima pagina. Era il nostro sisma quotidiano, un pugno nello stomaco ai fedeli seguaci di Montanelli che, usi a obbedir leggendo, erano migrati dalle plumbee pagine del Giornale alle frizzanti invenzioni di Corona. Un salto di toni e contenuti che, a volte, faceva sobbalzare anche il cuore robusto del vecchio Indro. Come la volta che in pagina finì un Cefis trasformato in Dracula («Mi tolse il sonno per giorni», disse a Tiziana Abate, inviata della Voce e autrice di una biografia autorizzata). O quando lâ??onore della prima toccò ad Altero Matteoli, anche allora ministro dellâ??Ambiente, che galleggiava in un mare di liquami. Per non parlare dellâ??immagine con Bossi, Berlusconi e Fini, tre duci in camicia nera impegnati in una inquietante corsa al balcone. Copertine audaci che, ricordaOrlando, contribuirono a far scappare a gambe levate molti di quei 500mila lettori che erano corsi in edicola per acquistare il primo numero. Non tanto per lo choc grafico, ma perché Montanelli, il â??loroâ? Montanelli, non era più quello di prima. O forse, questo il punto, era tornato a fare quello che più gli piaceva: giocare, in punta di penna, coi potenti e coi lettori. Provocandoli, accarezzandoli, ogni tanto sorprendendoli. Accanto alla Voce editoriale, di carta e penna (pardon, computer) câ??era dunque una Voce grafica, con una prima pagina a copertina quasi fosse un settimanale. Un settimanale- quotidiano, insomma, che a volte piaceva, a volte infastidiva ma che sicuramente non passava inosservato. E questo, al vecchio, piaceva molto.
Il fatto glorioso (câ??è sempre un momento glorioso nella nascita di un giornale) fu passare nel giro di pochi giorni dallâ??età del piombo (o quasi) a quella del silicio, da un giornale â??preistoricoâ? fatto di Olivetti, colla e forbici (per montare i pezzi sul paginone prima di mandarlo in tipografia) a un quotidiano tutto server, scanner e computer, per ripetere le parole che allâ??improvviso circolavano in redazione con sospetta normalità. Un viaggio nel tempo compiuto nel giro di sole tre settimane e sul quale nessuno avrebbe mai scommesso. A cominciare dal sottoscritto che vedeva i colleghi dellâ??ufficio centrale impugnare quellâ??oscuro oggetto chiamato mouse come il telecomando del televisore: puntandolo verso lo schermo, anziché facendolo scorrere sulla scrivania. Inutile dire che il vecchio direttore, non solo rifiutò di imparare lâ??uso del computer, ma quando una mattina, a pochi giorni dallâ??uscita, se lo trovò sulla scrivania, iniziò a imprecare nel più toscano dei modi fino a ottenerne lâ??immediata rimozione. Motivi di censura impediscono di riportare le frasi che, mezzâ??ora dopo vennero riservate a Luciano Consoli, rappresentante della proprietà, quando tentò di spiegare che il computer avrebbe svolto una funzione anche da spento, faceva status, soprattutto sulla scrivania di un importante direttore. Fu quello lâ??unico, brevissimo, incontro ravvicinato tra le nuove tecnologie e Montanelli. Il quale come è noto, usava solamente la sua personalissima â??Lettera 22â? e i fogli a gabbia rossa (con a lato i numeri per contar le righe) portati copiosi dal Giornale. Unica eccezione era il â??tratto penâ?, rigorosamente blu, che usava per correggere il testo. Una volta, notato che non trovava lâ??amato pennarello, gli porsi incautamente la mia stilografica. Scrisse poche lettere poi, mettendo a dura prova il prezioso pennino, la gettò sul tavolo dicendo: «Che è questa roba? ». La Voce, dunque, arrivò in edicola sullâ??onda di tre scosse telluriche. Ma, contrariamente a quanto sostenuto da molti, non furono quelle la causa della fine. A provocarne la chiusura furono altri motivi, più vicini agli ultimi giorni di Montanelli al Giornale che non alle performance editoriali della Voce. Torniamo al Giornale, allora. Erano mesi che Berlusconi era entrato nella cucina di Via Negri per fare in modo che il quotidiano assecondasse i suoi politici sogni di gloria. Prima â??a distanzaâ?, con le telefonate a Orlando e Montanelli per sapere i titoli del giorno dopo. Poi â??de visuâ?, con i â??sabati di Arcoreâ?: riunioni che teneva ogni mese nella sua villa con tutti i direttori del gruppo e dove la pressione era rivolta soprattutto al quotidiano di Montanelli (il quale si rifiutava regolarmente di partecipare, inviando al suo posto il povero Orlando). Infine, visti gli scarsi risultati, la sua presenza si fece più evidente ed ingombrante, mettendo in atto una autentica strategia del ricatto. E, da vero padrone, iniziò ad usare lo strumento che meglio controllava: la borsa. Cominciò coi tagli alle sedi estere, poi ai fondi per i collaboratori, alle foto, alle spese per gli inviati, per non parlare dei computer (le nuove tecnologie, come si chiavano allora) che venivano continuamente rinviate. Anziché aiutare il proprio giornale, Berlusconi fece il contrario: iniziò ad affondarlo. Con lâ??obiettivo, evidente, di mettere il vecchio capitano di fronte a una scelta drastica: cambiare rotta o lasciare il timone. Poiché il toscano non mollava, il futuro premier cambiò passo e lâ??8 gennaio â??94, approfittando della contemporanea assenza di Montanelli e Orlando, si presentò alla redazione riunita assemblea per discutere le evidenti difficoltà del giornale. Come suo costume, il padrone del vapore non usò giri di parole e sfoderò subito la famosa metafora della sciabola e del fioretto: questo giornale è unâ??arma elegante ma inutile, disse papale, trasformatelo in uno strumento più potente ed efficace, una sciabola appunto, e vedrete che i soldi arriveranno copiosi. Un ricatto, insomma. Ma una anche una inaccettabile invasione di campo che spinse il direttore, 85 anni, a portare la sua â??Lettera 22â? da unâ??altra parte. Non molto lontano, per la verità. Perché la sede della Voce, in linea dâ??aria, era a trecento metri da quella del Giornale. Tanto che una volta, distratto dai propri pensieri, il vecchio giornalista si presentò allâ??ingresso a lui ben noto di Via Negri 4 anziché in quello, ancora troppo nuovo, di Via Dante 10. A quellâ??indirizzo, invece, si presentarono puntuali i nuovi redattori tra cui i quaranta che lasciarono il Giornale. Una follia collettiva? Forse, ma non solo. Câ??era il fascino di seguire il vecchio giornalista. Per non parlare del piacere di voltare le spalle, non solo a Berlusconi, ma anche a quellâ??operazione di killeraggio mediatico svolta, tra insulti e contumelie, da Fede e Sgarbi nei loro sproloqui televisivi. Andare via di lì, insomma, era un beau geste, un atto di coraggio.
Anche per questo, forse, nessuno indagò molto sulla solidità economica dellâ??operazione. Si sapeva soltanto, così almeno ci dissero al momento dellâ??assunzione, che lâ??anima finanziaria della Voce era una public company, concetto esoterico che tradotto in parole poco economiche significava tanti piccoli padroni anziché un solo padrone. Idea affascinante, ma pericolosa. Perché dei famosi 50miliardi di sottoscrizione promessi agli inizi (e che tutti noi vedevamo come garanzia di successo) ne vennero raccolti soltanto 18. E gli altri? Spariti, scomparsi, mai visti. Come spariti, scomparsi, mai visti furono i tanti aspiranti sottoscrittori che si squagliarono nel giro di pochi giorni. Sei per la precisione, gli stessi che separarono la la nascita della Voce (il 22 marzo) dalle elezioni politiche del 28. Insomma, non sapendo dove andasse a parare lâ??Italia di Berlusconi, gli imprenditori grandi e piccoli, che avevano promesso aiuti allâ??antiberlusconiano Montanelli presero tempo. E si girarono dallâ??altra parte.
Un altro mistero, per niente buffo, fu la penuria di pubblicità, unâ??assenza inquietante, che a molti suonava sospetta, soprattutto per un giornale che pur essendo lontano dalle 350mila del primo mese viaggiava comunque sulle 70-80.000 copie vendute. Niente fondi e niente pubblicità: nel giro di pochi mesi si era ricreato intorno alla Voce quel vuoto pneumatico che aveva caratterizzato gli ultimi mesi del Giornale montanelliano. Il 27 marzo 1995, primo anniversario della vittoria elettorale di Berlusconi, lo stampatore Colasanto bloccò a sorpresa le rotative degli stabilimenti di Milano e Roma. Ritardo nei pagamenti, disse il giorno dopo. Una spiegazione sospetta, non solo perché il saldo delle fatture «in Italia viaggia anche con sei mesi di ritardo », come scrisse Corona. Quello che faceva più discutere, ricorda Orlando nel suo «Fucilate Montanelli» (Editori Riuniti), «fu la coincidenza con la annunciata decisione dello stampatore di candidarsi alle elezioni regionali del 23 aprile a Benevento. Con Forza Italia». Il giornale tornò in edicola il giorno dopo ma il messaggio ricevuto era chiaro. Il 12 aprile 1995 lo stampatore tolse definitivamente la spina. Sulla copertina dellâ??ultimo numero Corona piazzò un branco di animali dai denti inquietanti e sporgenti. E un titolo lieve: «Il giorno degli sciacalli ».

PS

La sera, lâ??ultima, andammo tutti al «Bistrot» di Via San Tomaso, una trattoria che era diventata la mensa abituale dei nostri pranzi. Quella volta rimase aperto fino alle tre di notte. Non fu una cena triste, al contrario fu una serata molto bella e intensa. E questa, in fondo, è ancora oggi la quarta â??bestemmiaâ? della Voce: nessun rimpianto per la scelta compiuta. Il giorno dopo eravamo tutti a spasso, ciascuno per conto proprio ma tutti accompagnati dalla stessa, spiacevole sensazione: che dopo la fuga dal Giornale e il passaggio alla Voce non sarebbe stato facile trovare un altro posto. Non nellâ??Italia di Berlusconi.

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