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Articolo 21 - Editoriali
Stato-mafia nel libro ‘Il Patto’ di Nicola Biondo e Sigrido Ranucci
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di Redazione

“Un infiltrato dentro Cosa nostra negli anni delle stragi e all’inizio della Seconda repubblica. Un uomo d’onore al servizio dello Stato. Oggi le rivelazioni di Ilardo – raccolte dal colonnello Michele Riccio – sono alla base di un processo in corso a Palermo che vede come principale imputato il generale Mario Mori. Ilardo parla di patti e di arresti di capimafia (“In Sicilia i capi o muoiono o si vendono”). Fa i nomi. Cita Marcello Dell’Utri: “un esponente insospettabile di alto livello appartenente all’entourage di Berlusconi”. Ilardo nel 1994 nessuno lo ascolta – a parte il colonnello Riccio, che registra tutto. Ed è incredibile perché proprio l’infiltrato porterà gli uomini del Ros nel casolare di Provenzano. Perché il boss non fu arrestato?”. Questo recita la seconda di copertina del libro " Il Patto", edizioni Chiarelettere, il libro dei giornalisti Nicola Biondo e Sigfrido Ranucci. Nel paragrafo che leggerete torniamo al 1995 e al mancato arresto di Bernardo Provenzano.

Il mancato arresto

di Sigfrido Ranucci e Nicola Biondo


Il 2 novembre 1995 Riccio è nella sede del Ros per consegnare una relazione con i dati forniti da Ilardo: descrizione del padrino, targhe delle auto usate dagli uomini del boss, numeri di telefono. Le indicazioni di Oriente consentono agli investigatori di dare un volto all’inafferrabile Binu, la cui ultima foto risale a trent’anni prima. Il giorno seguente l’ufficiale fa finalmente rientro a casa, in Liguria, convinto che in Sicilia i colleghi stiano già lavorando sulla zona dove è avvenuto l’incontro. Il 7 novembre arriva la doccia fredda: gli uomini incaricati delle indagini non trovano il luogo in cui Provenzano ha incontrato
Oriente. L’indomani, alle nove di sera, una macchina percorre la provinciale che da Palermo porta ad Agrigento. A bordo ci sono Riccio e Ilardo, e anche se è buio pesto e nessuno può vedere le loro facce,
Gino se ne sta accucciato sul sedile del passeggero con indosso una specie di passamontagna. Indica senza esitazione la stradina che si addentra nelle campagne di Mezzojuso e alla fine della quale sorge
la casupola in cui si è tenuto il summit. «Non capisco, colonnello: che ci siamo venuti a fare qui? Non
erano chiare le indicazioni che ho dato?» «Stai tranquillo – risponde Riccio – vogliono essere sicuri che il luogo sia questo...» Nelle stesse ore, sul tavolo di Giovanni Tinebra, capo della Procura di  Caltanissetta, arriva una lettera anonima. Qualcuno vuol far sapere ai magistrati che Ilardo ha ricominciato a delinquere. Una comunicazione dello stesso tenore è giunta anche al direttore della banca a cui Ilardo si appoggia. Si tratta di invidie interne a Cosa nostra; né Riccio né Gino si preoccupano più di tanto. A impensierire il tenente colonnello è semmai l’aria che tira al Ros.

Ambiente non molto unito – appunta il 10 novembre sulla sua agenda
– [...] riunione con Mori e i suoi per Oriente, come intervento e
mezzi tecnici non mi sembrano professionali, anzi! Ma non vogliono
richiedere aiuto. Vogliono che Oriente si penta, come sempre vogliono
solo prendere e lasciare agli altri le incombenze... la musica non è
cambiata, vogliono che Ultimo lo prenda tranne che non ci sia qualcosa
sotto.

In barba alle indicazioni di Ilardo e alle foto della zona di Mezzojuso scattate da un aereo militare, Sergio De Caprio e il maggiore Mauro Obinu non riescono a localizzare il posto nel quale l’infiltrato
ha incontrato Provenzano. Riccio è perciò costretto a svolgere un altro sopralluogo con Ilardo, all’alba del 16 novembre. Lo stesso Ilardo segnala al tenente colonnello una collinetta da cui si gode una perfetta visuale del rifugio del boss. Riccio è furibondo: non si capacita dell’inettitudine dei colleghi. Gli frullano in testa le parole di Gino durante il secondo sopralluogo. «Ma come, lei e io a questa benedetta casupola ci arriviamo in un attimo... Non è che questi sbagliano provincia?» Anche l’atteggiamento dei superiori lo irrita. Quando Riccio domanda se i telefoni dei complici di Provenzano siano stati messi
sotto controllo, gli viene data sempre la stessa risposta: «Non sono fatti che ti riguardano. Bada a gestire Ilardo». L’ufficiale è spiazzato, non sa che pensare.
Mori mi diceva che se ne occupava Sergio De Caprio, De Caprio mi
diceva che lui non contava nulla, e io sentivo tutta la responsabilità di
gestire Oriente.
Solo molti anni dopo, il colonnello Mario Mori, interrogato dalla Procura di Palermo, manifesterà alcuni dubbi sia su Michele Riccio sia sull’infiltrazione di Ilardo. Promosso nel frattempo generale e divenuto
responsabile del Sisde (il servizio segreto civile), Mori afferma che Riccio non era affatto presente a Mezzojuso il giorno dell’incontro fra Ilardo e Provenzano. Incalzato dalle domande dei pm Nino Di Matteo e Antonio Ingroia sul summit del 1995 e sulla mole di dati che l’infiltrato ha fornito in proposito, Mori risponde:
Ma adesso non ricordo, nel senso che tenga presente che io non vivevo
solo delle vicende del colonnello Riccio o di quelle di Palermo, io ero
responsabile operativo di una struttura, quella del Ros, che è a livello
nazionale, quindi avevo una serie di problematiche. Proprio per questo
io avevo delegato alla fattispecie investigativa due ufficiali di cui mi fidavo
e che potevano seguire con attenzione tutto lo sviluppo dell’indagine
e mi fu detto che Ilardo aveva dato delle notizie così, adesso a entrare
nel particolare non me le ricordo però... né probabilmente le ho
chieste nemmeno io di sapere di più perché non mi compete... non era
il mio livello di competenza.
Sulla presenza di Riccio a Mezzojuso non c’è alcun dubbio: l’attesta una relazione di servizio. A sentire però Riccio, pare che la vicenda sia stata trattata con sufficienza, come se arrestare Provenzano fosse un’operazione qualsiasi. La ragione di tale comportamento la spiega lo stesso Mori durante gli interrogatori alla Procura di Palermo:
Io a Riccio l’ho sempre sollecitato di concludere la vicenda con una riserva
mentale che ho sempre avuto, io non credevo che Ilardo ci avrebbe
portato a Provenzano ma questi sono fatti che si possono... adesso è
facile dirlo, quindi io mi sono attenuto a quello che mi diceva, ho messo
a disposizione gli ufficiali e dei funzionari perché sviluppassero l’attività
investigativa e basta e aspettavo.
Mori afferma che la decisione di non fare accertamenti sui favoreggiatori del padrino segnalati da Ilardo fu presa «tutti insieme, aspettando un secondo incontro». Giusto o sbagliato, vero o falso che sia, le considerazioni in merito a questa scelta sono tre. La prima: in occasione dell’arresto di Riina, fu deciso esattamente il contrario, seguire cioè i complici del boss per effettuare la cattura.
La seconda: è prassi indagare, anche con una ricerca d’archivio, le persone in cui ci si imbatte nel corso di un’inchiesta. La terza: si è lasciato che i mafiosi segnalati da Ilardo continuassero a proteggere Provenzano. Solo a distanza di alcuni anni Giovanni Napoli, Nicola La Barbera e Simone Castello sono stati arrestati. Sulla mancata individuazione dei personaggi segnalati da Ilardo, Mori afferma alla Procura che
Riccio si raccomandava sempre [...] di non fare nulla perché avremmo
potuto mettere in difficoltà Ilardo andando a toccare zone o persone
che comunque erano state con lui presenti a questo incontro di Mezzojuso.
È un dato di fatto che la zona in cui Provenzano era solito incontrare i suoi sodali non venne posta sotto controllo. Solo nel novembre del 1997 il Ros utilizzerà le informazioni di Ilardo e piazzerà una microspia in una proprietà di Nicola La Barbera, lo chef di Binu. La Barbera la individuerà subito e la distruggerà. Tra i tecnici dei carabinieri a conoscenza dell’operazione c’è Giorgio Riolo, un maresciallo esperto di intercettazioni che nel 2003 sarà arrestato per aver passato informazioni all’ingegnere Aiello, uno dei colletti bianchi legati a Provenzano.
I giudici chiedono a Mori come mai non fu messo sotto controllo il luogo del summit di Mezzojuso.
Intanto so che Obinu e forse Riccio insieme fecero dei sopralluoghi
nei giorni successivi, ma molto, molto superficialmente; che poi si potesse
mettere una telecamera, adesso bisogna vedere, perché siamo nel
’95, [...] non so se noi avessimo in quel momento degli strumenti idonei
a questo tipo di attività, e se non li avevamo noi, non ce li aveva
nessun altro, almeno per quanto riguarda l’Arma dei Carabinieri,
quindi penso che questa possibilità effettivamente non ci fosse.
La Procura di Palermo accerterà invece che in una caserma nelle vicinanze, posta su un’altura, sarebbe stato possibile piazzare una telecamera per inquadrare il rifugio del boss. A tale contestazione l’ufficiale Mauro Obinu ribatterà che «per motivi di riservatezza non abbiamo avvertito i nostri colleghi». Sta di fatto che Provenzano continuerà a frequentare quella zona fino al 2001, con tranquillità estrema.
Noi abbiamo localizzato il casale [dove Ilardo ha incontrato Provenzano]
– dice Mauro Obinu ai magistrati che lo interrogano il 5 marzo
2002 – [...] [ma va considerata] la difficoltà tecnica di entrare, in quel
posto, in quanto era costantemente occupato da pastori, da mucche e
da pecore.

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