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Articolo 21 - Editoriali
La corrosione delle istituzioni
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di Montesquieu*

Quando si concluderà la vicenda politica iniziata nel 1994, per tedio del protagonista e conseguente ritiro, o per consunzione, per qualsiasi altra causa – esclusa quella, ovunque fisiologica, del mutato rapporto di forza dentro il partito maggioritario –, ci accorgeremo che la stessa meriterà uno spazio autonomo, un proprio capitolo nella nostra storia politica. Per essere chiari, non sarà un sottoperiodo della seconda repubblica, o un’appendice camuffata della prima: sarà un periodo a sé. Che lo si chiami periodo berlusconiano, o sospensione – forse senza ritorno –, della politica dei politici, o governo della società civile, sarà interessante e importante, necessario, calcolarne le conseguenze, valutarne i danni, elencarne gli eventuali pregi. Ed è questo il momento di cominciare a farlo, perché è possibile, nel bene e nel male, un giudizio compiuto sul fenomeno, con la certezza che comunque nessun leader politico sarà più, o sarà stato conosciuto, studiato, indagato, amato o avversato come l’attuale capo del governo.
A dieci giorni da un passaggio elettorale che qualcosa dirà sulla effettiva vitalità di questa esperienza, si può dire con verosimile certezza che essa ha prodotto un fenomeno di corrosione nei meccanismi della nostra vita istituzionale e pubblica. Fenomeno non ostacolato, va detto con chiarezza.
Corrosione è qualcosa di diverso e di più che corruzione, per gli effetti di consunzione, di consumazione che lascia sui tessuti, sulle fibre. Che non saranno riparabili, o non converrà ripararli.
Ci riferiamo non tanto al personale della politica, che non si lascerà alternare tanto facilmente, avendo tutte le leve della selezione saldamente in mano, e con esse i meccanismi scientificamente adattati alla conservazione delle medesime – a partire dalla legge elettorale nazionale –; ci riferiamo a quelli che potremmo chiamare gli ammortizzatori della politica e delle istituzioni. La cui mancata sostituzione integrale potrebbe però diventare il grimaldello di crisi della sopravvissuta comunità politica, se la stessa non avrà l’accortezza di una autocritica feroce.
Gli ammortizzatori sono, nel linguaggio corrente, i dispositivi studiati ed applicati per evitare frizioni o contrasti tra corpi altrimenti contigui, consecutivi. In politica, e nelle istituzioni, potremmo definirlo tutto quanto dentro la politica non è politica, tutto quanto supporta, nella sua funzione riduttiva, o addirittura controlla la politica, la richiama, la condiziona. “I collaboratori non politici della politica”, e si chiede comprensione e pazienza per il groviglio lessicale, non è facile dirlo diversamente.
I collaboratori non di parte, si potrebbero definire, prima di scoprire, grazie al fenomeno rivelatore delle intercettazioni non necessarie, che non esistono quasi più.
Le burocrazie pubbliche, in primo luogo, bruciate dalla scelta di dirigenti di vertice, apicali nel loro gergo, troppo spesso (sempre più spesso) loro stessi di parte, rintracciabili sul mercato fin dalle avvisaglie dei sondaggi preelettorali.
Questo è un danno sicuro, incalcolabile, permanente. Che non turba se non a parole l’impallidito riformismo del ministro della funzione pubblica, cui andrebbe chiesto il segno neutrale e riformatore di alcune sue nomine recenti e fondamentali.
Ancora più grave, molto più grave, la perdita del senso profondo, dell’insostituibilità delle funzioni terze. Terze, diverse, distanti, separate, incontaminate. Qui la situazione è più che desolante, disperata, parola da non usarsi se non in casi disperati... Per quello che si viene a sapere, ahimè immancabilmente, ad ogni episodio rivelatore di conversazioni interessate.
Ci riferiamo a quelle – che non definiremo mai private, e di cui poco interessa il rilievo più o meno penale – che rendono torbida l’acqua non più limpida e cristallina degli organismi terzi, di separazione e di richiamo, anche di sanzione. Delle autorità indipendenti, di altri delicatissimi corpi dello stato, di organi di garanzia.
Per essere precisi, normalmente di singoli componenti degli stessi, che però non sembrano trovare in sé la forza per reagire, per isolare l’infezione.
Forse perché si scoprirebbe che al loro interno vi sono galantuomini con una macchia da nascondere, il peccato originale della ragione della loro scelta, la contiguità politica con chi nomina. Ci aspetteremmo, e sarebbe giustificata, una domanda, una obiezione. Perché attribuire a questo periodo politico questa lenta, dilagante, incontenibile mano di ruggine che tutto corrode? Domanda, obiezione in buona parte corrette, addirittura sacrosante.
Là dove è incontestabile che la pratica della occupazione generale precede il quindicennio in corso, al punto che si potrebbe sostenere che ha insegnato ai sopravvenuti la pratica distorta. Ma anche, domanda ed obiezione che sottovalutano l’evoluzione sfacciata e plateale di queste pratiche, figlia dell’acquiescenza alla rimozione totale dell’interesse generale come idea guida della politica.
Si direbbe che è scomparsa la vergogna, grazie al metro giudiziario applicato a tutto... Se non ci avesse messo del suo, tanto del suo, la politica tradizionale, quella fatta da professionisti, avrebbe potuto liberarsi dall’ombra opprimente di un pregiudizio, quello di essere peggiore della cosiddetta società civile, per come questa ci si è venuta rivelando. 
*da Europa
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