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Articolo 21 - Editoriali
Shaib, il calciatore
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di Elisabetta Reguitti

Shaib ha 19 anni è nato in Togo e vive a Lodi ospite della casa d’ accoglienza don Luigi Savarè.
Ieri ha ricevuto in regalo un paio di scarpe da calcio  rosso fiammante che lo fanno sognare di poter diventare come il suo idolo Eto’ o il giocatore dell’ Inter la squadra  dove gioca anche Mario Balotelli che ha molte cose in comune con Shaib ma una grande differenza: che l’assurdo regolamento della Figc (Federazione italiana gioco calcio) impedisce a Shaib di giocare.
L’ unica cosa che ha sempre fatto e che ama più di ogni altra.
Lui centrocampista capace di calciare con il piede sinistro –  proprio come Maradona  -  l’ ultima vera partita  l’ ha disputata nel 2008 indossando la maglia  della nazionale giovanile togolese durante la “Malaysia International Cup”. Poi però tutto è cambiato e in peggio tanto che oggi Shaib non può neppure essere iscritto alla “Gs Azzurra” la squadra dell’ oratorio don Bosco di Lodi che disputa il campionato Lnd (Lega nazionale dilettanti).
Il regolamento per l’iscrizione degli atleti infatti  prevede la residenza anagrafica da almeno 12 mesi e per gli  extracomunitari anche il permesso di soggiorno valido fino al termine della stagione calcistica.
Ma  Shaib è un richiedente asilo politico;  in fuga dal suo Paese,  in attesa del riconoscimento della protezione umanitaria  e come tale  può contare solo su permessi di tre mesi che gli vengono regolarmente prorogati da quando, nel dicembre del 2008, è sbarcato a Malpensa insieme al suo passeur che dopo avergli fatto superare i controlli alla dogana gli ha requisito il passaporto sparendo nel nulla.
La  Figc  ha sempre  fatto orecchie da mercante rigettando le richieste della  società Azzurra.
Insomma decine e decine di teorie su il gioco del calcio come strumento e veicolo di integrazione smentite dal fatto che Shaib pur allenandosi  regolarmente con i suoi compagni  la domenica si deve accontentare  di sedere in tribuna perché le regole non gli permettono di poter accedere al rettangolo di gioco, essere sul foglio delle formazioni che scendono in campo  e tanto meno giocare al pallone.
“A noi sembra davvero una cosa assurda.  Stiamo parlando di squadre della parrocchia e non di business” commenta Laura Coci dell’ Onlus  “Lodi per Mostar” firmataria insieme all’Asgi (Associazione studi giuridici sull’ immigrazione) del ricorso presentato al tribunale di Lodi sul carattere discriminatorio del comportamento tenuto dalla Figc proprio per  aver previsto tali requisiti.
Per Laura, il marito Roberto e gli altri volontari dell’Onlus di Lodi  la vicenda di Shaib è diventata anche il pretesto per tentare di richiamare l’attenzione sulle difficoltà oggettive di inserimento dei ragazzi quando vengono meno strumenti come lo sport.
Dello stesso parere è l’avvocato Alberto Guariso (Asgi) che ricorda come  praticare  un’attività sportiva venga considerato, sia dal Testo unico in materia di immigrazione che dalle convenzioni internazionali, tra i diritti “non condizionabili alla cittadinanza”. E facendo un collegamento con il calcio “che conta” Guariso commenta: “In un momento in cui il calcio professionista guarda alla liberalizzazione della circolazione degli atleti non si  capisce  perché ciò non possa accadere per gli stranieri regolarmente soggiornanti che militano tra i dilettanti. Inoltre nel caso specifico di Shaib non c’è alcuna finalità economica”.
Per  Shaib giocare a calcio significa  sentirsi vivo oltre che impegnare il tempo libero quando finisce di fare volantinaggio o aiutare chi lo  ospita. 
L’ impegno degli allenamenti e il coronamento settimanale della partita sono grandi obiettivi per giovani come Shiab la cui vita è  radicalmente cambiata al ritorno dalla Malesia.
Ai giocatori della nazionale  del Togo erano stati infatti promessi mille euro per ogni partita. Compensi  mai corrisposti anche se costantemente richiesti da tutti gli atleti ma per Shaib
c’ era anche l’aggravante di essere iscritto al partito di opposizione dell’ Ufc:  motivazioni più che valide  per arrestarlo.
L’ unica possibilità rimaneva la fuga. Quasi 2 mila euro (una cifra enorme per qualsiasi africano) dati da mamma Dahamatou  all’ uomo che avrebbe portato  Shaib, in auto, prima in Ghana e poi in aereo verso l’ Italia.
“Quando sono sbarcato a Malpensa ero felice per essere riuscito ad arrivare – ricorda Shaib  –. ll mio passeur mi disse  che gli dovevo ridare i documenti per ulteriori controlli. Sono rimasto ore ad aspettarlo ma inutilmente”. Dall’ entusiasmo alla disperazione per il racconto che prosegue. “Ad un tratto si è avvicinato un uomo che ha cominciato a parlarmi in francese. Mi sono fidato perché era nero come me – commenta sorridendo -. Mi ha detto che dovevo andare a Lodi ma io non capivo neppure cosa fosse”.
A Lodi  Shaib ha trovato ospitalità, amici, oltre a Laura e Roberto che l’ hanno un po’ adottato e raccontano: “Nostro figlio Giovanni ha un anno in meno di Shaib. Giocano nello stesso ruolo  ma in squadre diverse. Giovanni nella San Bernardo e per iscriversi ovviamente non ha dovuto presentare il certificato di residenza”.   
 “Football 88”:  la scritta bianca stampata sulla felpa di Shaib che non abbandona mai la sua  borsa  nella quale conserva una busta con le delle foto. Sono immagini che lo ritraggono nelle azioni di gioco,  insieme ai compagni di squadra e gli amici.  C’è anche il pass usato nei giorni  della competizione intercontinentale. Tutti ricordi preziosi che Shaib conserva insieme alla grande voglia di giocare le partite ufficiali calciando il pallone con le sue nuovissime scarpe  color rosso fiammante.

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