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Articolo 21 - Editoriali
C’era una volta il Tg numero 1
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di Ennio Remondino*

Storie da un altro mondo. C’era una volta il potere, i partiti e i governi bramosi di dire sempre la loro. C’era una volta, come sempre. C’era una volta il giornalismo radiotelevisivo pubblico vincolato ad una sorta di fiancheggiamento dei partiti al potere o di quelli ufficialmente ammessi alla concorrenza per patto costituzionale. Pluralità dispari ma in lenta crescita, col consolidarsi della democrazia condivisa nel Paese. Prima del precipizio. C’era una volta un certo ritegno nel connubio tra politica e giornalismo di servizio pubblico appaltato all’interesse delle parti politiche. I partiti, del resto, rappresentavano un interesse vasto e riconosciuto. Interesse semi pubblico, non di famiglia o di clan. C’era una volta, tanto tempo fa, nel mondo di questa fiaba, una sorta di accademia del bon ton giornalistico televisivo. Certamente un po’ ipocrita, “democristiana” potremmo dire oggi, un’accademia a volte un po’ maligna al suo interno per ambizioni personali concorrenti, diversa visione politica, padrinati contrapposti. C’era comunque e sempre la responsabilità di un Tg non solo “governativo” per appropriazione storicamente consolidata ma assieme “voce nazionale”, vincolata al riguardo d’insieme. Oltre a questo c’erano delle regole. Quelle scritte e quelle orali, quelle sindacali e quelle trasmesse come Dna dalla storia di una redazione. Regole e decenza, anche per le parzialità, anche per le carriere predestinate, anche per i favori imposti dall’esterno. Decenza che filtrava le prevaricazioni politiche nella scelta dei direttori, nel bilancino farmaceutico delle cronache politiche, negli spazi e negli incarichi redazionali ammessi o preclusi. Era innegabilmente il Tg numero 1.

Il quel mondo giornalistico irreale, frutto di vagheggiamenti senili del narratore, c’erano direttori che condividevano la linea del governo in carica, ma non prendevano ordini. Qualche consiglio, a volte. Partigiani convinti e militanti che ammettevano e rispettavano l’esistenza di idee alternative. Giornalisti sollecitati dall’ambizione personale che potevano cedere al peccato dello sgambetto, di qualche maldicenza, ma non pugnalavano alle spalle il collega concorrente. C’erano regole, ripeto, e ruoli. Contrattuali ma non soltanto. Direttori che sapevano di televisione, ed era la premessa d’obbligo. Vertici televisivi mai comparsi in video, ed era regola di buon gusto. Vicedirettori, pochi, a filtrare ogni lancio d’agenzia e ogni virgola scritta per tutte le edizioni che si succedevano. Redazioni governate con culo di pietra, presenza costante e puntigliosa verifica. Molta responsabilità condita da un pizzico di censura precauzionale. C’era il giornalismo di gerarchia, quello di strada e quello da video. Tre mondi separati, e guai a sgarrare, per equità redazionale e per buonsenso aziendale. O fai una cosa o fai l’altra, era la logica che impediva la mostruosità professionale degli “Assi Pigliatutto”. Allora, un volto, una voce, un modo di porgere, era non soltanto firma personale ma anche immagine e credibilità di tutto il Tg. Contenuto erano le voci e i volti che raccontavano mondi lontani: vetrina di attenzione e di potenza aziendale. Poi lo spazio al paese reale, certo, con qualche sconto sulle contrapposizioni sociali più scomode, ma mai completamente omesse. Cronaca nera attenta ma educata, mai pruriginosa, anche se con qualche ipocrisia di troppo. Immagini adeguate all’ora d’ascolto. E c’era anche un’Azienda che sapeva imporre ad ogni nuovo arrivato il rispetto di questa liturgia antica. Un po’ troppo pretesca, come ogni liturgia, ma certamente molto responsabile.

Poi, narrano alcune fonti, fu il caos. Nuovo Big Bang a travolgere assieme la politica e tutta la società del Piccolo Mondo Antico. Televisione compresa. Dalla frequentazione di troppe sagrestie si passò a troppi salotti. Degrado progressivo ma accelerato. Come alcune malattie che, nella mancata cura, trovano forza e velocità per arrivare rapidamente ad uccidere. In quel Nuovo che avanza la televisione da mezzo diventa strumento. Per usarla non serve neppure conoscerla. La devi soltanto possedere ed affidarla in delega fidata. Contemporaneamente, fine del giornalismo del buon mestiere, del crescere imparando, del dimostrare giorno per giorno, del percorso professionale che costruisce il credito per nuovi incarichi. Si impone il giornalismo che premia, con l’apparire, l’appartenere e il compiacere. Quella che ieri era considerata malattia, diventa regola. Siano notizie o siano prese di posizione sindacale, ciò che conta non è più la verità o la coscienza personale ma il gradimento. Il gradimento da parte di chi comanda. Anche la gerarchia rovescia la logica della sua autorità: non vale più la dignità del sapere ma la forza del possedere. Possedere grado, possedere danaro e benefits, possedere visibilità a compiacere la tua vanità, possedere incarichi anche se sovrapposti ed incompatibili tra loro. Io possiedo io sono, è la nuova logica. In questo mondo rovesciato, chi non possiede non vale. Chi non possiede non vola, a rovesciare il motto fascista di Balbo. Intanto volano e si moltiplicano gli incarichi, volano i costi e gli sprechi, volano le violazioni contrattuali aziendalmente accondiscese con complicità irresponsabile. Le sole cose a precipitare sono la credibilità, l’autorevolezza, gli ascolti. In questa fiaba extraterrestre la navicella pilota degli Assi Pigliatutto naviga arrogante verso il Buco Nero, il nulla siderale con tutto il Pianeta Azienda condotto al precipizio. A velocità interstellare.

*Il Manifesto

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