di Giulia Fresca
È diventato peggio di Bruno Vespa, con il suo fare saccente e teatrale. Roberto Saviano annuncia che sta scrivendo un nuovo libro, il terzo ancora per la Mondadori, sulla ‘ndrangheta. Gli sarebbe bastato venire in Calabria qualche volta, contornato dalla sua scorta e parlare con i giornalisti che qui invece ricevono minacce vere, per capire tutto sull’organizzazione criminale più ramificata al mondo.
Che genio, Saviano. Aspettiamo il suo libro per sgominare le famiglie criminali, gli intrecci che conducono alla gestione di patrimoni immensi basati sul narcotraffico, le attività commerciali ed imprenditoriali di mezza Italia del Nord e del sud America, le candidature di politici “funzionali” alle realizzazioni di intendimenti che portano al Potere. Aspettiamo Saviano per dire a magistrati del calibro di Nicola Gratteri, Giuseppe Lombardo, Giuseppe Creazzo e non ultimo Salvatore Di Landro, che non hanno capito nulla di cosa accade in Calabria.
Ma chi è Saviano per venire a “raccontare” la ndrangheta?. È una persona che vive in una terra martoriata da gente che l’ha depredata ai propri utili generando povertà e stato di bisogno?
La ndrangheta si sa, è l’organizzazione più “facoltosa” al mondo eppure la Calabria è la regione più povera d’Italia o forse dell’intera Europa. Chi scrive di queste cose, denunciando quotidianamente gli abusi, i soprusi e le ingerenze politico-criminali, rischiando la vita seriamente perché è qui che vive ed abita, non ha certo intenzione di speculare attraverso la vendita di un libro che ancora deve vedere la luce e che però già fa parlare di sé preannunciandosi come un nuovo best-seller.
Tutto ciò è vergognoso e da calabrese dico ad alta voce: Saviano, No Grazie! Si dedichi ad altro nella vita, si goda i frutti delle sue consumate fatiche nella tranquillità dei luoghi protetto dalle sue scorte. Lasci perdere la Calabria alla quale non farà certo un piacere, perché non è in grado di trarre da questa terra le cose positive che in essa, nonostante tutto, si generano continuamente. È sufficiente rivolgere lo sguardo alle cooperative sociali nate avendo per mission il cambiamento della Calabria e operanti per il riscatto delle comunità locali, che realmente si battono contro le mafie inserendo nel mondo del lavoro persone svantaggiate. Persone che vengono cancellate dai “libri paga” della criminalità organizzata che in Calabria offre solo manovalanza. La vera ‘ndrangheta è culturale, è quella che afferisce alla soggettività e conflitto, alle “soggettività oggettivate”, di sentimento intimo e personale delle amicizie, di questioni al “femminile”, di situazioni che pongono in rapporto tradizione/modernità, etica e responsabilità. Nei fatti di ‘ndrangheta, chi li vive davvero e ne conosce il significato più profondo, paragona la condizione femminile della donna del criminale “come una pasta di pane”, poiché ciò che appare dimenticato o rimosso nelle narrazioni maschili della storia non è l’eccezionalità delle donne, bensì la loro normalità. Lo scialle nero, il “guardaspaddi”, è memoria di una generazione passata ma anche vissuto del presente e sguardo al futuro, che ci conduce a quel crocevia tra tradizionale e moderno, tra destino e scelta, che viene faticosamente elaborato nella soggettività delle donne del Sud. Il “guardaspaddi” diventa anche il luogo dove custodire segreti, dolori, paure: luogo di pace e di conflitti insieme. Quell’abito nero che rappresenta il lutto delle donne di ‘ndrangheta e di mafia rimanda a quel significato di “mafia” con quale intendiamo un fenomeno complesso, polimorfico, consistente nell’uso di pratiche di violenza e di illegalità, in genere da parte di strati sociali dominanti o tendenti a diventare tali come la “borghesia mafiosa”, allo scopo di accumulare ricchezza e acquisire posizioni di potere, avvalendosi di un codice culturale non immodificabile e di un relativo consenso sociale, variabile a seconda della composizione della società e dell’andamento del conflitto di classe o comunque del rapporto tra le varie componenti. Nelle “mafie” si inserisce erroneamente anche la ‘ndrangheta ma a torto, perché essa è fatta da legami di congiunti, da “fratelli di sangue” e da donne all’interno della “signoria territoriale”. Questa “mafia” intesa come un’organizzazione formalmente monosessuale, riservata ai maschi, sottolinea invece l’elasticità di fatto che consente il contributo sempre più rilevante della donna, vista come un “fantasma che prende corpo”, mentre la “mafia” ,ma ancora di più la ‘ndrangheta, è come una rete che cambia colore passando da un centro fitto e nero ad un intorno grigio fino a giungere ai limiti nel candore del bianco: il candore delle fedine penali di quanti non sono direttamente coinvolti ma che rappresentano la forza vera della “mafia” attraverso l’omertà e la ricerca della “pace”.
Roberto Saviano non scriverà mai di queste cose, perché non le conosce, non le vive e soprattutto perché non è in grado di capirle, dalla sua postazione “lontana”, ma soprattutto non saprebbe, per convenienza, porre il suo lavoro a fin di bene per questa terra, che ancora una volta si offre, stupidamente, come preda.