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Articolo 21 - Editoriali
Unicredit. L’uscita di Profumo e le oscure trame del duo Bossi-Tremonti, all’ombra del declino berlusconiano.
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di Gianni Rossi

L’autunno nero del Patriarca di Arcore, alias Berlusconi, passa per Piazza Cordusio, Milano, la sede storica dell’Unicredit, una delle più grandi banche europee, guidata finora con mano dura e un pizzico di “arroganza”  da Alessandro Profumo, per ben  due volte votato come il “banchiere dell’anno” da una giuria di esperti europei.

Profumo cade sul “fronte libico”, formalmente a causa della crescita azionaria di due investitori libici, espressione in realtà del dittatore Gheddafi; ma in realtà per colpe legate al suo comportamento di banchiere fuori dagli schemi, lontano dalla politica spartitoria dei partiti, autonomo dai giochi sia del governo Berlusconi, sia del precedente, guidato da Prodi, nonostante fosse stato tra i più autorevoli  “testimonial” delle primarie del “Professore” e avesse pubblicamente votato per il centrosinistra. Gli artefici della sua “caduta dal cavallo bianco libico” (grazie agli investimenti di Tripoli e di un altro fondo sovrano degli Emirati Arabi, Unicredit è riuscito ad operare due aumenti di capitale, senza dover ricorrere ai Tremonti bond) hanno un nome e un cognome certi: Bossi e Tremonti. Entrambi hanno manovrato nell’ombra attraverso i rappresentanti delle Fondazioni, che in realtà detengono il potere nel CDA della banca, e che rappresentano gli appetiti dei partiti del Nord, la Lega in primis e una parte del PDL legato a Tremonti.

Già nei mesi scorsi, c’era stato un braccio di ferro per far entrare nei posti di comando l’economista torinese ed ex-ministro dell’economia, Domenico Siniscalco (sponsorizzato da Fabrizio Palenzona, vicepresidente di Unicredit ed esponente di punta della fondazione CRT, azionista di peso del gruppo, insieme alla Lega piemontese e al sindaco di Torino, Chiamparino, del PD). L’operazione non andò in porto, ma le trame per scalzare Profumo da Unicredit erano ormai partiteAlle mire leghiste per far ritornare nell’alveo degli interessi locali, cioè padani, si associarono il sindaco di Verona, FlavioTosi, e il presidente della Fondazione Cariverona (altro azionista di peso in Unicredit), Paolo Biasi, quest’ultimo accanito oppositore di Profumo, reo di aver accettato “l’aiuto libico” e di non tenere in debito conto le richieste del territorio padano: ovvero maggiori finanziamenti per le medie e piccole aziende venete, lombarde e piemontesi, anziché pensare all’internazionalizzazione della banca.

Bossi e Tremonti sono riusciti così a saldare un asse eterogeneo di interessi localistici e non solo: ambienti della finanza massonica, esponenti opusdeisti ed ex-democristiani, imprenditori della destra storica emiliano-romagnola attratti dalle sirene leghiste, banchieri tedeschi gelosi del primato italiano in Europa. Il  grimaldello dell’operazione “cacciata” di Profumo è stato incredibilmente proprio Berlusconi, quando negli ultimi mesi si è dato un  gran da fare con i potentati libici e arabi del Golfo, affinchè investissero in Italia e stringessero alleanze finanziarie con società a lui gradite. Con i libici e i loro “confratelli” degli emirati Arabi, la presenza islamica in Unicredit sembra sia arrivata a superare il 12%, una presenza rilevante e determinante, tanto da far gridare i leghisti “all’arabizzazione” dell’istituto, di pericolo che la banca potesse finire anche in mani libiche. Niente di più demagogico e falso.

In realtà, per Berlusconi, l’arrivo dei suoi amici, dei “cavalli bianchi del deserto”, significava poter agire con più forza sull’establishment affaristico-finanziario-politico: Unicredit, infatti, è determinante per gli accordi di potere in Mediobanca, nelle Generali e nell’editoriale RCS-Corriere della Sera. Il “salotto buono” della finanza  italiana avrebbe così ceduto alle lusinghe del Patriarca di Arcore, grazie proprio ai suoi amici libici ed arabi “teste di legno” delle sue trame. Era un po’ un salvacondotto per rendere meno amaro il suo tramonto politico, dopo il “tradimento” di Fini e la certa crisi di governo che aleggia come una spettro sulla legislatura, con il corollario delle elezioni anticipate, sempre più incerte per gli esiti berlusconiani.Uscire di scena dai palazzi della politica, quindi, per entrare a testa alta nei portoni dei “poteri forti”, che conteranno anche per il futuro dei suoi figli: un’assicurazione sul domani della famiglia e su quello giudiziario personale.

A mettergli i bastoni tra le ruote, però, è stato il suo amato “Duo di Piadena”, ovvero l’accoppiata di ferro, che finora lo aveva protetto dagli scossoni della politica romana: appunto Bossi-Tremonti.Il Duo sta lavorando incessantemente nell’ombra per il “dopo-Berlusconi”, che reputano imminente, nonostante il “mercato delle vacche” che il Patriarca sta facendo con i parlamentari per superare la crisi, e lo stanno logorando proprio sul terreno per lui più “sensibile”, quello degli affari e della finanza, dei legami con alcuni settori influenti nel potere locale e nazionale: Comunione e liberazione, Opus Dei, ambienti massonici, piccola e media impresa. Tutti molto sensibili ai richiami del potere bancario e alle possibilità che “mani amiche” possano aprire i rubinetti del credito. Specie in periodo di crisi e in campagna elettorale!

Non a caso, finora a difendere le sorti di Profumo, sono stati gli uomini di Berlusconi, oltre ad alcuni esponenti sindacali del settore bancario e personaggi del PD. Qualcuno del centrosinistra si è azzardato anche a riconoscerlo nel “papa straniero”, invocato dai veltroniani per coprire la leadership del centrosinistra alle prossime elezioni; qualcun altro, come Elio Lannutti, storico presidente dell’Adusbef e senatore dell’IDV, invece, ne ha tratteggiato gli aspetti più “odiosi” come top manager di Unicredit specie per i rapporti con la clientela “retail”, ovvero i piccoli risparmiatori.

Sta di fatto che ora si sono riaperti i giochi del Risiko bancario, proprio in prospettiva dei futuri assetti di potere politico, con la prepotente discesa della Lega Nord insieme agli ambienti tremontiani, espressione di una parte dei “poteri forti”, proprio nell’agone politico che tanto demagogicamente ha disprezzato e messo all’indice, per accrescere nelle regioni settentrionali il suo appeal di partito fuori dagli schemi e “diverso” dai politicanti corrotti della “Roma ladrona”. Ora, dopo la cacciata di Profumo, anche la Lega di Bossi getta la maschera e tenta la scalata nei “salotti buoni” della finanza che conta, dopo il disastro dell’operazione CrediEuroNord, la banca leghista fallita anni fa, dopo un ennesimo tentativo di salvataggio da parte della Banca popolare di Lodi, di quel Giampiero Fiorani, inquisito con i cosiddetti “furbetti del quartierino”.

La prossima “vittima” di queste trame potrebbe essere Banca Intesa-San Paolo, governata da Giovanni Bazoli e Corrado Passera, ritenuta un gioiello di convivenza tra finanza cattolica e finanza laica. Anche in questo caso si tratta di top manager progressisti, idealmente vicini al centrosinistra (anche Bazoli partecipò alle primarie per Prodi), malvisti dai leghisti e dagli ambienti massonici.
Come fronteggiare un’operazione così devastante degli equilibri economico, finanziari e politici, che insieme al perdurante conflitto di interessi sul sistema dei media, rischiano di inquinare il corretto svolgimento del confronto democratico e delle stesse elezioni politiche? La politica del centrosinistra sembra impacciata e sulla difensiva; mentre le istituzioni che dovrebbero vigilare e controllare sono assenti o insolitamente senza voce: alla Consob manca da mesi il presidente, Bankitalia con il governatore Mario Draghi latita, l’Autorità Antitrust è sempre più evanescente.

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