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Articolo 21 - Editoriali
Il caimano in testa
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di Fernando Cancedda*

“Società e Stato nell’era del berlusconismo”. Parlarne, come si è fatto a Firenze per tre giorni la settimana scorsa – nel convegno promosso da Libertà e Giustizia e dalla rivista di storia contemporanea “Passato e presente” – voleva dire anzitutto chiedersi come sia stato possibile che per sedici anni Berlusconi abbia dominato e continui a dominare il panorama politico italiano. Ma parlare di “berlusconismo”, piuttosto che di Berlusconi, voleva dire cercare non soltanto nella politica, ma nell’economia, nella cultura, nella morale, nella comunicazione e nel linguaggio le radici di qualcosa che ben merita di definirsi “regime”.

Con uno sguardo agli appunti, necessariamente parziali*, comincio dalle “relazioni pericolose” fra imprese e finanza di cui ha parlato Marco Omado, docente alla Bocconi di Milano. Da Sindona a Verdini, dagli anni ’90 ad oggi, ciò che più ha caratterizzato gli scandali finanziari nel nostro Paese è che hanno quasi sempre a che fare con la corruzione della classe politica, la condanna della quale è demandata all’autorità giudiziaria, nella totale assenza di una sanzione economica, politica ed etica.

Con evidente indulgenza, ha osservato Antonio Gibelli dell’università di Genova, da parte dell’episcopato italiano, critico verso un cattolico di prim’ordine come Romano Prodi e pronto invece a chiudere un occhio sulle malefatte di un leader impenitente come pochi, la cui condotta disdicevole risulta loro comunque più affidabile quanto alla difesa degli interessi ecclesiastici materiali (fisco,sanità,educazione) e simbolici (bioetica, controllo sulle nascite e sulle morti). Con una sola eccezione: gli immigrati. L’argine cattolico alla xenofobia in Italia è ancora decisivo.

Conta poco che con i governi di centrodestra l’Italia sia tornata nell’età d’oro della corruzione, che secondo gli ultimi calcoli della Corte dei Conti costa al nostro bilancio una perdita di entrate per 70 miliardi e di 130 miliardi di PIL. Ma la corruzione – ci ricorda Alberto Vannucci dell’università di Pisa citando Norberto Bobbio – intacca anche il principio di trasparenza del potere pubblico. Così il potere non è più controllabile e i cittadini ritornano sudditi.

“Transparency International” vede la corruzione in Italia agli stessi livelli dell’Arabia Saudita e 17 cittadini italiani su 100, contro i 9 su 100 della media europea, dichiarano di averne sentito gli effetti sulla propria pelle (Eurobarometro). Ma le condanne penali sono state appena 230 nel 2006, a confronto delle 1724 del 1996. Non supplisce, come si è detto, la sanzione politica e, dati alla mano, assistiamo in questi anni ad un crollo significativo dell’attenzione giornalistica sugli scandali finanziari, anche rispetto agli anni prima di tangentopoli.

Di fronte a questo “gap” culturale, c’è da chiedersi poi, come hanno fatto Giovanni Gozzini dell’università di Siena e Norma Rangeri direttore del Manifesto, quanto abbia contribuito alle fortune del berlusconismo il fatto che restiamo agli ultimi posti in Europa per la lettura di libri e giornali e ai primissimi posti nel consumo della TV. C’è da stupirsi se la pubblicità è diventata il collante vero di una società frammentata e se l’appello alle regole cede il passo e lo spazio all’interesse per il racconto, il sogno, la fiaba che ha per lo più per protagonista l’ italiano medio senza cultura? Certo, questi processi di trasformazione della società non sono solo italiani, ma il berlusconismo ne è stato da noi il grande beneficiario. Ha trovato un terreno fertile e ha fatto scuola. Il pubblico è imploso nel privato.

Il populismo vuole che l’audience abbia sempre ragione e la maggioranza stabilisca ciò che è bello e ciò che è vero. Di questo ha parlato anche Laura Balbo, dell’università di Padova, invitando tutti a non cedere alla sfiducia. E’ sempre accaduto, ha detto, che i cambiamenti vengano dalle minoranze, non dal settanta per cento. Però dobbiamo porci il problema di parlare agli altri, non solo a quelli che alle nostre idee sono già convertiti. Inventiamoci meccanismi di comunicazione e di soluzione dei problemi.

Guido Melis, dell’università “La Sapienza” di Roma, richiama l’attenzione sulla mancata riforma della pubblica amministrazione che da oltre un secolo obbliga di fatto a dipendere da una divisione del lavoro tra le due parti del Paese: il nord nell’industria, il sud arretrato negli apparati pubblici. Non sono certo tutti “fannulloni” come pretende il ministro Brunetta – ha voluto precisare – ma non giova all’efficienza un impianto culturale rigidamente formalistico, incapace di distinguere e valutare il merito. E’ indispensabile quindi una forte modernizzazione degli uffici, l’ingresso nei ranghi di una generazione giovane, ben retribuita. Nel disegno di Berlusconi e Brunetta c’è al contrario soltanto la mortificazione del personale, per dare libero sfogo alla legislazione speciale, limitare l’area del pubblico a vantaggio delle cricche e degli interessi privati.

Nonostante il rigore delle sue posizioni, il più ottimista dei relatori mi è parso, paradossalmente, il collega giornalista Marco Travaglio, secondo il quale il berlusconismo “non è un disegno né una cultura ma l’adattarsi progressivamente alle esigenze miserabili della difesa degli interessi di un uomo solo”. Tutto quello che ha fatto nella sua vita non corrisponde alle leggi e lui ne deduce che le leggi sono sbagliate come pure la Costituzione. Di qui la catena di leggi “ad personam” che si rendono via via indispensabili a coprire reati commessi a suo tempo per coprire altri reati. Ma, conclude ironicamente Travaglio, “il tramonto del regime è iniziato. Non si può pensare a un modello sociale e politico in cui il numero dei ladri supera quello dei derubati. Infatti i ladri cominciano a rubare tra loro”.

Del suo illuminante saggio sulla “lingua di Berlusconi” ha parlato infine Gustavo Zagrebelsky, Presidente emerito della Corte costituzionale e anche Presidente onorario di Libertà e Giustizia. Lo raccomando alla lettura nel testo originale e mi limito a girarvi il suo invito a “bonificare quel linguaggio soprattutto in noi stessi”. Perché anche noi “l’usiamo credendo di dominarlo e invece ne siamo dominati”. A cominciare da quel famoso “scendere in campo” (che di per sé significa sacrificio altruistico) dicendo : “l’Italia è il Paese che amo”. Quindici anni dopo anche il Partito democratico ha esordito dicendo :”Noi, i democratici, amiamo l’Italia”. Dimenticando a nostra volta che quello che non potrebbe essere diversamente (“Noi antidemocratici odiamo l’Italia”?) non merita di essere detto.

* Per un’informazione  completa cliccare sul sito nazionale di “Libertà e Giustizia”.
*dal blog www.nandokan.it

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