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Articolo 21 - Editoriali
Che fare? Dalla “rivoluzione leninista” alla “rivoluzione riformista”. Quale “polo” scegliere.
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di Gianni Rossi

Quasi 110 anni fa un grande uomo, piccolo di statura, ma forte e determinato nelle sue idee, scrisse un libretto dal titolo ormai divenuto storico per tutte le generazioni politiche: “Che fare?”. Si trattava di Lenin, il “padre” della rivoluzione sovietica in Russia. Era la fine del 1901! Ci mise 16 anni per riuscire ad applicare le su teorie rivoluzionarie bolsceviche, rovesciare la dittatura zarista e imporre la dittatura del proletariato. E’ finita poco più di 70 anni dopo con la caduta del muro di Berlino e l’abolizione dello stato sovietico: la Russia è ritornata nell’alveo delle democrazie occidentali, anche se governata da un regime autocratico e dispotico. Il “sogno comunista bolscevico” si è trasformato in Russia e in Cina, prima in incubo e poi in oppressione, per finire negli anni della globalizzazione in una sorta di vetero-capitalismo oligarchico e privo di qualsiasi forma di libertà fondamentali.

C’è dunque bisogno di un partito rivoluzionario e di teorie specifiche per superare l’attuale stato di perenne crisi del capitalismo neo-liberista italiano e mondiale? C’è ancora bisogno di un “sogno rivoluzionario” per organizzare le masse oppresse e diseredate (studenti, operai, impiegati, disoccupati, pensionati, emigrati, donne e giovani) e sostituire l’attuale classe politica e imprenditoriale incapace con un’altra classe dirigente? E’ morto e sepolto il riformismo socialdemocratico, seppellito anch’esso dalla fine delle ideologie? E qual è il ruolo degli intellettuali oggi, come agli inizi del Novecento, quando furono i promotori dei partiti rivoluzionari, comunisti e socialisti? Sembrano domande retoriche e legate alla storia delle dottrine politiche, ma è da qui che dobbiamo partire per sgomberare equivoci e inganni, per dotarci di alcuni strumenti in grado di farci percorre una strada che porti alla creazione di un movimento democratico, riformista, moderno, globale nell’apertura mentale e locale nell’applicazione delle teorie politiche: umano, solidale, giusto, libero e portatore di felicità.

Si sentono a sinistra echeggiare “sogni” radicali, che cercano nell’identitarietà con un proletariato sconfitto e culturalmente traviato dai “sogni mediatici del capitalismo consumista” come una coperta di Linus, una protezione per non perdere il contatto con quella storia leninista più “romantica”. E’ un’area vasta, che non trova espressione nel Parlamento, ma che svaria dai “reduci” di Rifondazione comunista ed dintorni, ai “messianici” raccolti attorno al nuovo leader di SEL, Niki  Vendola, che sta comunque trovando molti accoliti e simpatie anche fuori dal suo contesto più naturale e di “classe”. E c’è, poi, la sterminata galassia sindacale di base, che si identifica con le lotte della FIOM, i fautori dello “sciopero generale” a piè sospinto e della chiusura a qualsiasi forma di innovazione contrattuale. Il “caso Fiat” è in ogni modo a sé stante, in quanto foriero di novità che prevedono arretramenti sindacali, cancellazione di diritti fondamentali, come i contratti nazionali collettivi e le modalità di produzione: in pratica vengono aboliti lo storico Statuto dei lavoratori e l’accordo del ’93 sulla “Concertazione”.

Quindi, c’è il “Polo riformista” attorno al più grande partito di opposizione, il PD, lacerato da continui dibattiti solipsistici, avviato verso la travagliata stagione della “guerriglia” per correnti, ancorato alle esternazioni mediatiche dei tanti, troppi leader, a cominciare dai due ex- segretari e capi-corrente, D’Alema e Veltroni. Non solo, ma troppe anime e diversi sentire ne fanno un conglemerato che rischia di implodere nei prossimi mesi, quando si dovrà affrontare un confronto programmatico identitario. Il PD era nato da un’idea del professor Romano Prodi, sotto forma dell’Ulivo, come Polo Riformista in grado di attrarre uomini e donne provenienti da culture diverse (cattolici, comunisti, socialisti, laici, radicali), per contrastare l’ascesa al potere del berlusconismo. In qualche modo ha funzionato da catalizzatore elettorale nelle due occasioni in cui Prodi vinse le elezioni, nel 1996 e nel 2006, ma è durato lo spazio effimero delle battaglie elettorali. Ha seminato un po’ dovunque, ma era privo di una identità realmente innovativa. Al suo interno, l’Ulivo ha coltivato sia le istanze riformiste storiche, sia le “novità” post-capitalistiche del cosiddetto New Labour del britannico Blair. Più che un superamento dal capitalismo liberista e monetarista, si basava su ricette pur sempre liberiste  di un “capitalismo compassionevole”: privatizzazioni di ampi settori pubblici, anche quelli considerati, a sinistra, giustamente beni pubblici irrinunciabili; liberalizzazioni dei servizi pubblici essenziali; flessibilità dei contratti e del mondo del lavoro; mantenimento di tassazioni elevate per sostenere le spese del welfare state e ridurre i deficit di bilancio.

Unica grande “visione politica” fu l’europeismo convinto, che portò alla firma dei Trattati di Maastricht e all’ingresso nell’Euro, nonostante la forte e aggressiva opposizione del mondo imprenditoriale nostrano (la CONFINDUSTRIA arrivò a una sollevazione pubblica!) e del raggruppamento di centrodestra, con a capo la Lega Nord di Bossi e Forza Italia di Berlusconi. Ma da quello spartiacque, da quell’idea solidaristica e sovranazionale dell’Unione Europea, tanto cara alle previsioni del grande Jacques Delors (l’ultimo presidente della Commissione europea a proporre un piano di sviluppo “visionario”, ma ancora attuale), il nostro asfittico “Polo Riformista” è uscito con le ossa rotte. Ora si tratta di mettere in piedi un Centro di elaborazione che in poco tempo riprenda le fila di una stagione europeista e riformista che si è persa per strada, ma che sappia anche sgombrare il campo da alcune chimere. Un Polo alternativo a quello di destra, anticostituzionale, autocratico e reazionario, guidato da Berlusconi-Bossi-Tremonti, può nascere se riscopre la “rivoluzione riformista”. Non sembri una contraddizione in termini. L’unica rivoluzione che l’Italia non ha mai vissuto è stata proprio quella riformista. Solo dopo la stagione eroica della Resistenza, l’Italia conobbe una breve stagione rivoluzionaria riformista, che portò alla definizione della più avanzata Costituzione repubblicana del mondo. Lì dentro ci sono i nostri semi per creare un’alleanza in grado di farci uscire dal tunnel.

Il confronto tra questo ipotetico Polo Riformista sia con la sinistra “radicale” sia con quel magmatico Centro, impersonato oggi dall’asse Fini-Casini-Rutelli, dovrebbe basarsi su temi forse “indigesti” a chi ancora si sente legato ad una visione della politica mediatica, leaderistica e liberista:

- Alleanza degli onesti, ovvero di quanti pagano le tasse (dipendenti pubblici e privati, pensionati, lavoratori atipici e a  tempo indeterminato, settori produttivi autonomi, artigiani, piccoli, medi e grandi imprenditori che hanno il senso dello stato e che credono ancora sia nello Statuto dei lavoratori, sia nella contrattazione nazionale collettiva, sia nella concertazione.

- Riforma fiscale drastica, che riduca a 3 le aliquote con un massimo del 39 per cento, che introduca il Quoziente familiare o sistema equivalente. Niente più condoni o stangate fiscali, ma incremento della lotta all’evasione e all’elusione fiscale.

- Riforma del mercato finanziario, bancario e assicurativo, con forti connotati antitrust e in difesa dei consumatori. Introduzione di una “Tobin tax” sulle contrattazioni finanziarie e aumento della tassazione sui proventi speculativi al livello dell’imposizione sui risparmi bancari e sui titoli di stato. Reintroduzione delle tasse di successione per le grandi eredità.

- Rivisitazione del sistema di privatizzazioni e liberalizzazioni, reintroducendo il concetto di “reti minime si servizi minimi pubblici”, concernenti la distribuzione dell’acqua, lo smaltimento e il riciclaggio dei rifiuti, l’energia elettrica, i trasporti pubblici via terra, aria, mare e ferrovia. Ma anche la liberalizzazione di servizi assistenziali. Ridiscussione delle forme di previdenza integrative, complementari a quella generale.

- Riforma del mercato del lavoro, legando flessibilità a sicurezza del posto di lavoro e a incentivi per l’ingresso nell’occupazione per i neolaureati sia per i datori di lavoro, sia per i neoassunti, oltre a politiche fiscali e di bonus per gli affitti. Riforma universitaria  e della secondaria adeguata alle richieste del movimento studentesco, dei ricercatori e precari.

- Alcune leggi per ridare al nostro paese la dignità di nazione moderna e democratica, al passo con i paesi più avanzati: conflitti di interessi ( media, finanza, banche, assicurazioni e TLC, settori energetici); legge elettorale e nuovi ruoli per Camera e Senato con riduzione dei parlamentari, così come abolizione di province e altri enti locali pletorici; mantenimento solo di alcuni grandi “centri metropolitani” per le maggiori città; abolizione delle regioni a statuto speciale, entità anacronistiche; legislazione anticensoria per il mondo del WEB e sviluppo della banda larga; riforma del Servizio pubblico radiotelevisivo, come più volte auspicato e proposto in Parlamento da Articolo 21.

Alla base di questa “Rivoluzione riformista” c’è la “stella polare” della nostra Costituzione, che dovrà fungere da spartiacque tra i due fianchi di questo Polo delle Buone Volontà. Il 1968 ci invitava ad esaltarci nell’arte di immaginare il futuro e quindi: “siamo realisti, esigiamo l’impossibile, perché l’immaginazione conquisti il potere”!

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