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Articolo 21 - Editoriali
Fiat via dall’Italia. Marchionne dà il benservito a Berlusconi.
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di Gianni Rossi

Sempre più la crisi della FIAT, e i possibili progetti industriali e finanziari che potrebbero rimetterla in sesto, passano per il tramonto del governo Berlusconi. Se stiamo ai fatti, la FIAT è ritornata in crisi da quando sono finiti gli “aiuti di stato”, ovvero gli incentivi fiscali per le rottamazioni. Modelli nuovi nello stile e nelle motorizzazioni sono ormai un ricordo lontano. Nel frattempo, l’amministratore delegato, Sergio Marchionne, ha imposto alcune condizioni “strangolanti”, per  continuare a produrre in Italia: la chiusura dello stabilimento siciliano di Termini Imerese, la divisione in due società del gruppo per meglio “giocarsele sul mercato” della Borsa e trarre dividendi, regole “cinesi” per gli stabilimenti di Pomigliano d’Arco e Torino Mirafiori, fuoriuscita dalla Confindustria, riduzione dei diritti sindacali.

 

Nel volgere di meno di un mese, poi, ha svelato senza troppi fronzoli, il suo vero obiettivo: risanata la Chrysler, che nel frattempo ha ripreso a vendere auto e a macinare dividendi, si avvierà la fusione con la FIAT, e restituiti i lauti aiuti finanziari dei governi USA e del Canada, il nuovo gruppo da italo-americano si trasformerà in americo-italiano con testa, cuore e portafogli a Detroit. Così, d'altronde, vorrebbero le clausole riservate dell’accordo tra Marchionne e Obama, e così vuole la prassi legale borsistica di Wall Street.

Le pezze come sempre in questi casi anziché tappare il buco, lo hanno ingrossato. Ovvero, né il governo, con l’uscita tempestiva e consolatoria del ministro del Welfare, Sacconi, né il presidente della FIAT, John Elkann, e tantomeno la mediatica convocazione a Palazzo Chigi del Marchionne, hanno fugato i dubbi che le parole del commercialista-filosofo Marchionne fossero una boutade: hanno in effetti ribadito che entro il 2014, se non prima, il gruppo avrà più “poli decisionali” a Torino, a Detroit, in Brasile e in Asia. Nel frattempo, ne siamo sicuri, così come da molti mesi andiamo scrivendo sul nostro sito, Marchionne ridurrà la produzione in Italia, venderà ai migliori offerenti parti di alcuni “gioielli di famiglia” (Alfa Romeo e Ferrari), farà insomma “cassa” anche per aggiungere denaro fresco ai tanti miliardi con i quali dovrà rimborsare le amministrazioni statunitense e canadese.

In realtà e nella pratica del sistema industriale e finanziario globalizzato, nessun grande gruppo può permettersi un decentramento del genere, né ipotizzarlo è da  sani di mente: la Renault con la compartecipata giapponese Nissan ha il “cuore pulsante” nei pressi di Parigi; le 3 “cugine” americane, Ford, GM e Chrysler, a Detroit e dintorni; Volskwagen, Porsche e Mercedes nelle rispettive città tedesche di origine; le giapponesi come la big mondiale Toyota nei luoghi di nascita. Da lì traggono la loro forza, la peculiarità del marchio e arricchiscono il rispettivo “sistema paese”. Pensare solo a spezzettare il ponte di comando in giro per il mondo risulterebbe una bestemmia nella logica industriale. Per questo le parole di Elkann sono solo “cortina fumogena” agli occhi degli sprovveduti sindacati che hanno finora detto sempre sì ai desiderata di Marchionne (CISL,UIL, UGL e FISMIC) e del governo, così come gli artifici lessicali e temporali di Sacconi possono solo rassicurare chi ancora nel PD (Veltroni, Fassino, ecc,) o negli altri partiti del centrodestra  ha bisogno di “buffetti consolatori” istituzionali.

Ne uscirà, dunque, rafforzata persino la figura di Marchionne “risanatore” di due aziende storiche dell’auto, di “un uomo solo al comando”, che ha saputo piegare i sindacati più “spigolosi” del mondo, come sono ritenuti la FIOM e la CGIL. Ma, soprattutto, avrà dimostrato al mondo più industrializzato che si può rifare la storia economica ed industriale, imponendo una frattura logica nel corso degli avvenimenti, spesso lineari tra loro. Morirà così uno dei cuori pulsanti dell’industria dell’auto, quella di Torino, nata nel 1899 contemporaneamente a quella americana e francese e distintasi per eccellenze nello styling e nella progettazione dei motori. Muore così anche l’Italia industriale, quella della grande e media impresa che si è imposta nel mondo come “made in Italy” e come concorrente di livello con l’industria esportatrice tedesca. Questo accade, non solo per la crisi economica e finanziaria, che ci sta portando nel baratro dalla seconda metà del 2008, ma soprattutto per l’inerzia, l’incapacità culturale e politica del governo Berlusconi ad affrontarla.

 

Quando la FIAT, agli inizi del Duemila entrò in un abisso di debiti e di crisi di vendite, da una parte il vertice del gruppo, ancora controllato dalla famiglia Agnelli, cercò vie alternative per salvare il nucleo industriale, separandosi dalle compartecipazioni finanziarie; dall’altra rifiutò altezzosamente aiuti di stato “ingombranti” promessi da Berlusconi, perché consapevole che altrimenti l’azienda sarebbe entrata nell’orbita degli interessi tentacolari del sultano di Arcore. Con un po’ di fortuna e di capacità, la FIAT grazie alle banche e a una drastica cura dimagrante ad uscì dal baratro, accettando solo gli incentivi fiscali delle varie rottamazioni. Ma, d’altro canto, il governo italiano mai sarebbe stato in grado di finanziare, come ha fatto Obama, a suon di miliardi di euro il gruppo di Torino senza imporre suoi manager fidati o soci azionisti collaterali alla “Compagnia di giro”, che Berlusconi è riuscito a costruirsi in questi 25 anni e che ne fanno uno degli uomini più ricchi al mondo, ma soprattutto un coacervo di conflitti di interessi, dall’editoria, alla finanza, alle assicurazioni, all’edilizia, all’industria culturale, fino all’energia.

 

Si pensi solo alle ripercussioni politiche nella sua stessa maggioranza, con la Lega di Bossi, a sbraitare contro la “dinastia sabauda” e gli aiuti decennali agli “ingrati” di Torino! Certo, per Berlusconi, una FIAT (con tutto l’indotto) ai suoi piedi sarebbe stato un colpaccio non solo dal lato economico, ma anche di sudditanza politica e culturale. Ma che avrebbe distrutto la linea di austerità imposta da Tremonti e Bossi, tutta protesa a finanziare in realtà lo sgangherato progetto federalista. Anche perché di soldi “cash” nel bilancio dello stato ce ne sono pochini e il “Trio lumbard”, Treconti-Berlusca-Bossi, non ha la più pallida idea di dove andarli a pescare, se non aumentando le tasse.

 

Ecco, allora, che Marchionne con i suoi diktat tra il sindacalese, il politichese e l’industriale alla “ghe pensi mi”, si è divincolato dall’abbraccio mortale di Berlusconi, preferendo la sponda atlantica offertagli da Obama, ben sapendo che a quest’ultimo ( e a tutto il “sistema paese” nordamericano) doveva portare in dote un competitor europeo del settore: appunto la FIAT con i suoi gioielli di famiglia e i suoi cervelli. Mentre la Merkel, rispondeva alla crisi del settore, aiutando i suoi gioielli, e altrettanto faceva Sarkozy. Non a caso, i gruppi automobilistici tedesco e francese in qualche modo riescono “ a tirare”, pur in periodo di “vacche magre”, mentre la FIAT continua la sua discesa nelle vendite, sia in Italia sia, soprattutto, in Europa.

 

Nello scenario mondiale, ormai l’Italia non viene più considerata una mini-potenza industriale, dedita all’esportazione, quanto un feudo medievale di potentati economici e finanziari americani, tedeschi, francesi, indiani, cinese e russi. Quest’ultimi sono i più pericolosi, perché dediti al “money laundering”, alla ripulitura del danaro sporco, proveniente dai loschi affari mafiosi, italiani e russi. Secondo ben informati operatori finanziari milanesi, infatti, capitali russi di dubbia provenienza sarebbero piombati come neve in molte società quotate a Piazza Affari, da quando si sono strette le alleanze politico-affaristiche tra il governo italiano e quello russo. Non solo, ma molte società energetiche avrebbero soci prestanome proprio per non far ancora apparire ambienti affaristici dai trascorsi torbidi, legati in qualche modo all’amministrazione Putin.

 

Marchione dà insomma il benservito a Berlusconi, anche perché nella nuova divisione mondiale del lavoro all’Italia è rimasto ben poco spazio: per la Francia e Germania il futuro continuerà ad essere incentrato sull’industria, per la Gran Bretagna sulla finanza; mentre  il resto dell’Europa (orientale e mediterranea, Italia compresa, come Spagna, Portogallo e Grecia)  farà da corollario come dispensatrice di “forza lavoro” e di alcune eccellenze di contorno.
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