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Articolo 21 - Editoriali
E le chiamano "Morti bianche"
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di Gaetano Alessi

Aveva 23 anni Nicola.
L’ultima volta che l’ho visto era a pochi metri dalla postazione in cui ora sto scrivendo. Circondato dai suoi amici in una stanza, la mia, diventata di colpo troppo piccola per ospitare la pattuglia di miei compaesani saliti per vedere il Motor Show. Nicola era con loro, teneva vicino il suo zaino con le stellette che tradiva la sua appartenenza all’Esercito italiano. Parà della “Folgore”. Lo ricordo mentre tentava di andare in R.C.O (Recupero Capacità Operative) tra gli scherzi dei ragazzi che con lui dividevano un letto di fortuna.
Era di una famiglia di onestissimi lavoratori Nicola, figlio di una Sicilia bellissima ma maledetta. Gli piaceva il suo lavoro a Nicola. Aveva scelto l’esercito e nell’esercito è morto. Ribaltato dentro un “lince” lungo l’Aurelia, in territorio di Tarquinia. Tornava da un esercitazione propedeutica all’Afghanistan.
Un altro ragazzo che muore. Muore facendo quello che per troppi è diventato un “lavoro”: il militare.
Per i ragazzi del sud ormai “la scelta di chi non ha scelta”.

Muori con una divisa addosso o con la tuta da operaio e vieni chiamato “morte bianca” in un paese che non piange più i suoi morti, si limita a commemorali poche ore, il tempo che una telecamera faccia diventare la “tragedia” notizia, merce da vendere al primo telegiornale. Poi solo il dolore sordo dei parenti, che con quel dramma dovranno imparare a convivere tutta la vita. Un paese che ha altro a cui pensare, che vive con la testa in mezzo alle sottane o con gli occhi rivolti da un'altra parte ma non si sa dove, un paese che non crea lavoro per i suoi figli, un paese che ti precarizza anche l’anima, un paese dove nessuno più si chiede perché si debba morire sul lavoro e per il lavoro, un paese che insieme all’etica sta perdendo anche l’umanità.

Ho conosciuto Nicola solo due giorni, ma sento un pesante senso d’angoscia.
Forse perché m’indigno ancora, forse perché amo la vita più di ogni altra cosa; forse perché come militante sociale, come attivista, sento il fallimento di non essere riuscito a garantire a chi ha meno anni di me un luogo più decente in cui vivere, un luogo dove ci sia sempre “scelta”. O  forse perché mi sento perfettamente inutile ed affido a queste righe il malessere di una generazione, la mia, persa tra un presente orribile ed un futuro precario. Chiedo perdono alla famiglia Casà per questa intromissione nel loro dolore, ma mi piace pensare a Nicola sorridente in R.C.O a pochi passi da me.
Le chiamano “morti bianche” ma cosa ci sia di candido io ancora non riesco a capirlo.

 

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