di Gianni Rossi
All’indomani dello stravolgimento del quadro politico nazionale, dovuto alle elezioni amministrative che hanno visto la vittoria ai ballottaggi del centrosinistra in alcuni comuni “strategici”, ecco che suonano come “soave musica per le orecchie” dell’opposizione le Considerazioni finali del Governatore di Bankitalia, Mario Draghi, lette durante l’ultima Assemblea annuale, prima di lasciare Palazzo Koch e assumere il prestigiosissimo incarico di Presidente della BCE a Francoforte. “Tornare alla crescita”: questo il tema centrale della sua relazione. Ma soprattutto un giudizio severo, pacato sui mali strutturali che affliggono il nostro paese e l’incapacità dal 2006 ad oggi da parte di tutto il sistema politico di affrontarli alle radici, riportando l’Italia ai livelli degli altri partner europei. Un’analisi rigorosa, ma anche un appello di cuore da parte di questo “civil servant”, formatosi alla “scuola” di Carlo Azeglio Ciampi, che lo volle sempre al suo fianco quando fu Governatore e poi al governo, incaricandolo di seguire le privatizzazioni e di gestire il ministero del Tesoro come Direttore generale, al fine di creare le condizioni pratiche per risanare i debiti e di entrare nell’Euro.
Alla presenza proprio del suo “maestro”, purtroppo in salute malferma, Draghi ha indicato alcune strade da percorrere a quanti, nella maggioranza e nell’opposizione, sentiranno il dovere e la responsabilità di “voltare pagina”, visto che, come lui stesso sostiene: “Antiche contrapposizioni sono in gran parte venute meno. In Europa, i progressi verso forme sempre più avanzate di integrazione e, in Italia, una inedita condivisione della diagnosi dei problemi che affliggono l’economia rappresentano favorevoli punti di partenza. Va raggiunta una unità di intenti sulle linee di fondo delle azioni da intraprendere. Ciò che può unire è più forte di ciò che divide. Oggi bisogna in primo luogo ricondurre il bilancio pubblico a elemento di stabilità e di propulsione della crescita economica, portandolo senza indugi al pareggio, procedendo a una ricomposizione della spesa a vantaggio della crescita, riducendo l’onere fiscale che grava sui tanti lavoratorie imprenditori onesti.”.
Certo, non è così facile, ma aggiunge Draghi: “La crescita di un’economia non scaturisce solo da fattori economici. Dipende dalle istituzioni, dalla fiducia dei cittadini verso di esse, dalla condivisione di valori e di speranze. Occorre sconfiggere gli intrecci di interessi corporativi che in più modi opprimono il Paese; è questa una condizione essenziale per unire solidarietà e merito, equità e concorrenza, per assicurare una prospettiva di crescita al Paese.”.
Un invito a quelle forze politiche e sociali davvero responsabili, che finora hanno resistito alle “sirene” dell’Incantatore di Arcore, secondo cui “tutto va bene madama la marchesa”. Quel Berlusconi che predica di voler cambiare tutto, purchè nulla di sostanziale cambi, se non i meccanismi fondamentali della democrazia, dalla giustizia alla Costituzione, alle regole del mercato liberale e concorrenziale, alle conquiste sociali e al welfare state. Un “affossatore” dello stato di diritto, che in 17 anni ha portato il paese quasi alla bancarotta e all’emergenza economica e sociale, traendo benefici da leggi “ad personam”, aumentando la sua ricchezza personale, ma portando discredito al livello internazionale. “State rubando il futuro alle nuove generazioni” è l’accusa che cresce dalle piazze colme di giovani, vestiti di arancione, che hanno portato alla vittoria i candidati sindaci a Milano e Napoli. Lo stesso cruccio è del Governatore: “Quale paese lasceremo ai nostri figli? Tante volte abbiamo indicato obiettivi, linee di azione, aree di intervento. A distanza di cinque anni, quando si guarda a quanto poco di tutto ciò si sia tradotto in realtà, viene in mente l’inutilità delle prediche di un mio ben più illustre predecessore. Abbiamo vissuto fasi di sviluppo impetuoso: nel primo quindicennio del Novecento il prodotto per abitante aumentò del 30 per cento; dopo la seconda guerra mondiale, si accrebbe del 140 per cento in quindici anni. A ridosso di quelle due fasi l’Italia seppe esprimere una unità di intenti di fondo. In altri periodi il progresso, lo sviluppo, sono stati frenati da divisioni, conflitti di fazione, un indebolirsi della fiducia fra cittadini e Stato. Molti squilibri, in primo luogo quello fra Nord e Sud, sono stati solo in parte sanati. Le diversità sono una cifra storica dell’Italia, più che di altri paesi. Da fonte di ricchezza esse si sono non di rado tramutate in reciproca interdizione, blocco dello sviluppo.”.
Ecco allora il monito di colui che avrebbe potuto incarnare il leader di una coalizione antiberlusconiana, ma che Tremonti e Berlusconi hanno anche per questo fatto di tutto perché traslocasse sulla scrivania più ambita nell’Eurotower della BCE, a Francoforte. Come ridurre il gap di crescita e sviluppo nei confronti dei principali concorrenti europei? Come affrontare il grande handicap dei conti pubblici in rosso, che frenano le aspettative di ripresa e attanagliano le prospettive di un futuro degno di una paese fondatore dell’Unione e dell’Euro, anziché farlo precipitare nel vortice del fallimento come per i cosiddetti PIGS (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna)? Draghi è spietato nel suo atto di accusa sui mali italiani: “Dall’avvio della ripresa, nell’estate di due anni fa, l’economia italiana ha recuperato soltanto 2 dei 7 punti percentuali di prodotto persi nella crisi. Nel corso dei passati dieci anni il prodotto interno lordo è aumentato in Italia meno del 3 per cento; del 12 in Francia, paese europeo a noi simile per popolazione. Il divario riflette integralmente quello della produttività oraria: ferma da noi, salita del 9 per cento in Francia. Le dinamiche retributive sono da noi modeste, non potendo troppo discostarsi da quelle della produttività: la domanda interna ne risente. Le retribuzioni reali dei lavoratori dipendenti nel nostro paese sono rimaste pressoché ferme nel decennio, contro un aumento del 9 per cento in Francia; i consumi reali delle famiglie, cresciuti del 18 per cento in Francia, sono aumentati da noi meno del 5, e solo in ragione di una erosione della propensione al risparmi. La sfida della crescita non può essere affrontata solo dalle imprese e dai lavoratori direttamente esposti alla competizione internazionale, mentre rendite e vantaggi monopolistici in altri settori deprimono l’occupazione e minano la competitività complessiva del Paese.”.
Il sistema delle infrastrutture, che sono la spina dorsale per il trasporto di merci e persone, che possono avvicinare o allontanare il paese dal resto d’Europa, è in piena crisi, accusa Draghi, nonostante le mirabolanti promesse di Berlusconi con il suo “contratto con gli italiani” del 2001 e in seguito con gli avveniristici progetti del ponte sullo Stretto, sulla TAV Lione-Torino e adeguamento dell’Autosole: “L’Italia è indietro nella dotazione di infrastrutture rispetto agli altri principali paesi europei, pur con una spesa pubblica che dagli anni Ottanta al 2008 è stata maggiore in rapporto al PIL. I programmi del Governo prevedono che l’incidenza della spesa scenda all’1,6 per cento nel 2012, dal 2,5 del 2009; nella media dell’area dell’euro la spesa programmata per il 2012 è del 2,2 per cento del PIL, dal 2,8 del 2009. Incertezza dei programmi, carenze nella valutazione dei progetti e nella selezione delle opere, frammentazione e sovrapposizione di competenze, inadeguatezza delle norme sull’affidamento dei lavori e sulle verifiche degli avanzamenti producono da noi opere meno utili e più costose che altrove. I progetti finanziati dal Fondo europeo di sviluppo regionale vengono eseguiti in tempi quasi doppi rispetto a quelli programmati, contro ritardi medi di un quarto in Europa, e i costi eccedono i preventivi del 40 per cento, contro il 20 nel resto d’Europa. Nell’alta velocità ferroviaria e nelle autostrade i costi medi per chilometro e i tempi di realizzazione sono superiori a quelli di Francia e Spagna, in una misura solo in parte giustificata dalle diverse condizioni orografiche. È necessario recuperare efficienza nella spesa, anche per sfruttare appieno le risorse dei concessionari privati e quelle comunitarie, che non pesano sui conti pubblici. A oggi sono stati completati poco più del 60 per cento degli ampliamenti concordati nel 1997 tra l’ANAS e la principale concessionaria autostradale e meno del 30 di quelli decisi nel programma del 2004; il programma più recente, del 2008, è ancora in fase di studio. Le opere da realizzare valgono circa 15 miliardi. I fondi strutturali comunitari attualmente a nostra disposizione sono stati spesi solo per il 15 per cento: quelli non spesi ammontano a 23 miliardi, a cui va associato il relativo cofinanziamento nazionale. Accelerare tutti questi interventi darebbe un forte impulso all’attività economica.”.
Schietta e altrettanto inclemente l’analisi sul mondo del lavoro, dove la flessibilità colpisce i giovani e le donne e la precarietà è sinonimo di bassa crescita: “La diffusione nell’ultimo quindicennio dei contratti di lavoro a tempo determinato e parziale ha contribuito a innalzare il tasso di occupazione, ma al costo di introdurre nel mercato un pronunciato dualismo: da un lato i lavoratori in attività a tempo indeterminato, maggiormente tutelati; dall’altro una vasta sacca di precariato, soprattutto giovanile, con scarse tutele e retribuzioni. Riequilibrare la flessibilità del mercato del lavoro, oggi quasi tutta concentrata nelle modalità d’ingresso, migliorerebbe le aspirazioni di vita dei giovani; spronerebbe le unità produttive a investire di più nella formazione delle risorse umane, a inserirle nei processi produttivi, a dare loro prospettive di carriera. La scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro è un fattore cruciale di debolezza del sistema, su cui stiamo ora concentrando la nostra ricerca. Oggi il 60 per cento dei laureati è formato da giovani donne: conseguono il titolo in minor tempo dei loro colleghi maschi, con risultati in media migliori, sempre meno nelle tradizionali discipline umanistiche. Eppure in Italia l’occupazione femminile è ferma al 46 per cento della popolazione in età da lavoro, venti punti meno di quella maschile, è più bassa che in quasi tutti i paesi europei soprattutto nelle posizioni più elevate e per le donne con figli; le retribuzioni sono, a parità di istruzione ed esperienza, inferiori del 10 per cento a quelle maschili. Il sistema di protezione sociale deve essere posto in grado di offrire, a chi perde definitivamente il lavoro e ne cerca attivamente un altro, un sostegno sufficiente; occorre che la sorte di chi lavora in aziende che non hanno più prospettive di mercato sia resa meno drammatica, anche per non ostacolare il fisiologico ricambio delle imprese.”.
Ecco, quindi, l’indicazione di fare presto per rimettere i conti pubblici in ordine, già a fine giugno, senza aspettare il 2014. Critica i tagli “lineari” alla Tremonti e suggerisce di spulciare le tante voci di spesa pubblica, in modo così di aiutare la crescita economica, oltre che ridurre le tasse, specie per chi lavora e chi produce, colpendo invece le rendite finanziarie. Certo, Draghi non fa cifre, ma l’obiettivo, che fissa in percentuale, si aggira sui 40/50 miliardi di euro: “Appropriati sono l’obiettivo di pareggio del bilancio nel 2014 e l’intenzione di anticipare a giugno la definizione della manovra correttiva per il 2013-14. Senza sacrificare la spesa in conto capitale oltre quanto già previsto nello scenario tendenziale e senza aumentare le entrate, la spesa primaria corrente dovrà però ancora contrarsi, di oltre il 5 per cento in termini reali nel triennio 2012-14, tornando, in rapporto al PIL, sul livello dell’inizio dello scorso decennio. Per ridurre la spesa in modo permanente e credibile non è consigliabile procedere a tagli uniformi in tutte le voci: essi impedirebbero di allocare le risorse dove sono più necessarie; sarebbero difficilmente sostenibili nel medio periodo; penalizzerebbero le amministrazioni più virtuose. Una manovra cosiffatta inciderebbe sulla già debole ripresa dell’economia, fino a sottrarle circa due punti di PIL in tre anni. Occorre invece un’accorta articolazione della manovra, basata su un esame di fondo del bilancio degli enti pubblici, voce per voce, commisurando gli stanziamenti agli obiettivi di oggi, indipendentemente dalla spesa del passato; impiegandouna parte dei risparmi così ottenuti in investimenti infrastrutturali. Andrebbero inoltre ridotte in misura significativa le aliquote, elevate, sui redditi dei lavoratori e delle imprese, compensando il minor gettito con ulteriori recuperi di evasione fiscale.”.
Infine un’altra sentenza di scetticismo verso il federalismo fiscale, tanto voluto dalla Lega e pensato da Tremonti come la “soluzione finale” per ridurre la tassazione: “Il federalismo fiscale può aiutare, responsabilizzando tutti i livelli di governo, imponendo rigidi vincoli di bilancio, avvicinando i cittadini alla gestione degli affari pubblici. Due condizioni sono cruciali: che i nuovi tributi locali siano compensati da tagli di quelli decisi centralmente e non vi si sommino; che si preveda un serrato controllo di legalità sugli enti a cui il decentramento affida ampie responsabilità di spesa.”.