Articolo 21 - Editoriali
L'umiltà del bene
di Ferdinando Cancedda
Il referendum del 12 giugno? “Un voto inutile - dicevano quelli del PdL - che assolutamente non va politicizzato. Vogliamo sapere quello che ne pensano i cittadini, tanto che ai nostri diamo libertà di voto”. Poi ci ripensano: è inammissibile, ricorriamo subito alla Consulta contro il via libera della Cassazione. Quando si dice la coerenza.
E il Partito democratico? Scettico agli inizi sul referendum per l'acqua pubblica, una volta avviata la raccolta di firme da Di Pietro e dalle associazioni decide di puntare su una proposta di legge. Alla fine si convince che è giusto affidare democraticamente ai cittadini scelte come il nucleare, il servizio idrico, i privilegi di chi governa.
Personalmente io trovo in questi referendum, a parte il merito che condivido, anche un valore strategico: non tanto per l'occasione offerta di una nuova disfatta del premier dopo quella ottenuta alle amministrative, oppure per dare, come si spera, una “spallata” al suo governo, ma perché se passano i “sì” sarebbe forse la prima, significativa vittoria sul berlusconismo.
In ognuno dei quattro quesiti è in gioco il prevalere di un bene comune (la sicurezza per il nucleare, l'autonomia dal profitto per la gestione dell'acqua, l'uguaglianza di tutti i cittadini fronte alla legge) sopra il calcolo utilitario, per lo più a tutela di interessi particolari, che il berlusconismo vuole affermare.
Ecco allora che una vittoria nei referendum potrebbe essere un capitolo importante non solo della “questione morale”, ma anche della nostra “questione democratica”, che a torto buona parte della classe politica vorrebbe separare dalla prima. Chiediamoci infatti: che cosa divide oggi realmente la maggior parte degli italiani? Quanto di tale divisione corrisponde a effettiva diversità di giudizio, morale e politico? Quanto deriva da ignoranza colpevole ma anche innocente, aggravata da semplificazioni verbali dei media, trucchi emotivi, populismo mediatico e conformismo gregario?
I famosi “dialoghi con la folla” proposti da D'Annunzio e Mussolini ieri, da Berlusconi oggi (banalità nelle domande, ovvietà nelle risposte), funzionano – ormai lo sappiamo - finché la sollecitazione rimane nel vago e non consente ai cittadini di misurarsi direttamente con la propria esperienza di vita. Confrontare le parole con la realtà è allora il compito che, se vogliamo davvero cambiare il paese, siamo chiamati a svolgere..
Parliamo ossessivamente di crescita, forse perché questo è l'unico modo consentito dal capitalismo per uscire da una grave crisi economica. Parliamo invece meno dei danni, anche economicamente pesanti, prodotti dalla corruzione, dalle mafie e dall'evasione fiscale. Il ritornello di “così fan tutti” e il pessimo esempio che viene dalla classe dirigente hanno quasi rimosso quel tanto di ipocrisia che fino a ieri si richiedeva per nascondere le malefatte. L'ipocrisia non serve, basta continuare a negare mostrando assoluta indifferenza ad ogni prova contraria.
Giusto allora parlare di crescita. Ma anche far crescere noi stessi, la qualità della nostra vita, i nostri sogni e bi-sogni oggi ampiamente suggeriti dai modelli televisivi della pubblicità commerciale non è meno importante che far crescere la produzione.
In questo contesto, rovesciare il tavolo vuol dire rovesciare gli schemi della comunicazione univoca. Aiutare tutti, a cominciare dai presunti avversari, ad aprire gli occhi sulla realtà delle cose. Cercare con tutti, dentro e fra i partiti, dentro e fra le organizzazioni della società civile, quello che unisce per ridurre il peso di ciò che divide.
Risalire la china non sarà facile. Cercare con tutti vuol dire rinunciare a “quel narcisismo della perfezione morale che – come scrive Franco Cassano ne “L'umiltà del male” - disprezza chi è rimasto attardato e si è fermato qualche gradino più giù” . Vuol dire condividere ogni giorno questa paziente pedagogia attraverso i mezzi (pochi) che abbiamo a disposizione, dalla scuola a internet. Altrimenti, come aggiunge Cassano, “diventa legittimo chiedersi se la prospettiva dell'emancipazione non sia condannata a rimanere confinata per sempre all'interno di un piccolo cerchio minoritario”.
Un po' di ottimismo ci vuole, e ce lo siamo meritato. Quando lo spirito unitario riesce ad affermarsi sulle divisioni, come è avvenuto nell'elettorato di centro sinistra alle recenti amministrative, come sta avvenendo in questi giorni nella campagna per i referendum, l'umiltà del bene trova anch'essa le sue soddisfazioni.
E il Partito democratico? Scettico agli inizi sul referendum per l'acqua pubblica, una volta avviata la raccolta di firme da Di Pietro e dalle associazioni decide di puntare su una proposta di legge. Alla fine si convince che è giusto affidare democraticamente ai cittadini scelte come il nucleare, il servizio idrico, i privilegi di chi governa.
Personalmente io trovo in questi referendum, a parte il merito che condivido, anche un valore strategico: non tanto per l'occasione offerta di una nuova disfatta del premier dopo quella ottenuta alle amministrative, oppure per dare, come si spera, una “spallata” al suo governo, ma perché se passano i “sì” sarebbe forse la prima, significativa vittoria sul berlusconismo.
In ognuno dei quattro quesiti è in gioco il prevalere di un bene comune (la sicurezza per il nucleare, l'autonomia dal profitto per la gestione dell'acqua, l'uguaglianza di tutti i cittadini fronte alla legge) sopra il calcolo utilitario, per lo più a tutela di interessi particolari, che il berlusconismo vuole affermare.
Ecco allora che una vittoria nei referendum potrebbe essere un capitolo importante non solo della “questione morale”, ma anche della nostra “questione democratica”, che a torto buona parte della classe politica vorrebbe separare dalla prima. Chiediamoci infatti: che cosa divide oggi realmente la maggior parte degli italiani? Quanto di tale divisione corrisponde a effettiva diversità di giudizio, morale e politico? Quanto deriva da ignoranza colpevole ma anche innocente, aggravata da semplificazioni verbali dei media, trucchi emotivi, populismo mediatico e conformismo gregario?
I famosi “dialoghi con la folla” proposti da D'Annunzio e Mussolini ieri, da Berlusconi oggi (banalità nelle domande, ovvietà nelle risposte), funzionano – ormai lo sappiamo - finché la sollecitazione rimane nel vago e non consente ai cittadini di misurarsi direttamente con la propria esperienza di vita. Confrontare le parole con la realtà è allora il compito che, se vogliamo davvero cambiare il paese, siamo chiamati a svolgere..
Parliamo ossessivamente di crescita, forse perché questo è l'unico modo consentito dal capitalismo per uscire da una grave crisi economica. Parliamo invece meno dei danni, anche economicamente pesanti, prodotti dalla corruzione, dalle mafie e dall'evasione fiscale. Il ritornello di “così fan tutti” e il pessimo esempio che viene dalla classe dirigente hanno quasi rimosso quel tanto di ipocrisia che fino a ieri si richiedeva per nascondere le malefatte. L'ipocrisia non serve, basta continuare a negare mostrando assoluta indifferenza ad ogni prova contraria.
Giusto allora parlare di crescita. Ma anche far crescere noi stessi, la qualità della nostra vita, i nostri sogni e bi-sogni oggi ampiamente suggeriti dai modelli televisivi della pubblicità commerciale non è meno importante che far crescere la produzione.
In questo contesto, rovesciare il tavolo vuol dire rovesciare gli schemi della comunicazione univoca. Aiutare tutti, a cominciare dai presunti avversari, ad aprire gli occhi sulla realtà delle cose. Cercare con tutti, dentro e fra i partiti, dentro e fra le organizzazioni della società civile, quello che unisce per ridurre il peso di ciò che divide.
Risalire la china non sarà facile. Cercare con tutti vuol dire rinunciare a “quel narcisismo della perfezione morale che – come scrive Franco Cassano ne “L'umiltà del male” - disprezza chi è rimasto attardato e si è fermato qualche gradino più giù” . Vuol dire condividere ogni giorno questa paziente pedagogia attraverso i mezzi (pochi) che abbiamo a disposizione, dalla scuola a internet. Altrimenti, come aggiunge Cassano, “diventa legittimo chiedersi se la prospettiva dell'emancipazione non sia condannata a rimanere confinata per sempre all'interno di un piccolo cerchio minoritario”.
Un po' di ottimismo ci vuole, e ce lo siamo meritato. Quando lo spirito unitario riesce ad affermarsi sulle divisioni, come è avvenuto nell'elettorato di centro sinistra alle recenti amministrative, come sta avvenendo in questi giorni nella campagna per i referendum, l'umiltà del bene trova anch'essa le sue soddisfazioni.
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