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Articolo 21 - Editoriali
Al Festival di Roma per vedere il film su Cucchi con due ex prigionieri iraniani
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di Ahmad Rafat

“148 Stefano. Mostri dell'Inerzia”, racconta una di quelle storie che potremmo definire senza giri di parole, una vergogna per un paese che si definisce democratico e uno Stato di diritto. Presentato alla sesta edizione del Festival Internazionale del Film di Roma “148 Stefano. Mostri dell'Inerzia” è un documentario che cerca di ricostruire, malgrado la mancata collaborazione di molti personaggi coinvolti in questa triste vicenda, la storia di Stefano Cucchi, arrestato con l'accusa di spaccio di droga dai carabinieri, e riconsegnato cadavere una settimana dopo ai suoi genitori in un obitorio. Perché Stefano Cucchi è morto e chi sono i responsabili della sua morte, sono alcune delle domande cui nemmeno il documentario diretto da Maurizio Cartolano riesce a dare delle risposte. La morte di questo giovane di Tor Pignattara rimane un "mistero" a due anni di distanza.

La Sala Petrassi dell'Autitorium, dove il documentario è stato presentato era pieno. Alla fine del film, molti come me sono usciti tristi, arrabbiati e anche preoccupati. Molti, come Ilaria, la sorella di Stefano, si chiedevano all'uscita dalla Sala Petrassi, come è possibile che, chi ha come dovere istituzionale di proteggerci, può prendere una persona in custodia, perché questo ci aspettiamo dalle forze dell'ordine, e riconsegnarlo qualche giorno dopo alla famiglia cadavere con evidenti segni di violenza? Ancora più sorpresi erano alcuni iraniani che hanno assistito alla proiezione, tra questi una giovane regista e un critico cinematografico che sono fuggiti dal paese degli ayatollah per trovare rifugio in un paese democratico.

I due che sono riusciti a scappare dalla Repubblica Islamica, dopo essere stati ospiti delle carceri degli ayatollah iraniani, credevano di aver compreso male la storia, visto la loro scarsa conoscenza della lingua italiana. Mi chiesero se era vero che anche in Italia, un paese democratico e uno Stato di Diritto, si potesse essere arrestati vivi e sani, per poi essere riconsegnati ai propri familiari senza vita e quasi irriconoscibili. "Il documentario mi ha spaventato", dice la giovane regista che arrestata dopo le elezioni presidenziali del 2009 a Teheran, è stata per 94 giorni rinchiusa nel carcere di Evin, dove è stata pestata e violentata solo perché sorpresa a filmare le manifestazioni con un cellulare. "Ho avuto paura perché per un attimo mi sono sentita non sicura nemmeno in Europa", dice la regista. "Se anche in un paese europeo che per noi rappresenta la democrazia, nelle carceri possono succedere le stesse cose che succedono in Iran e senza che i responsabili di tali crimini siano individuati, arrestati e puniti, allora in cosa dobbiamo credere noi che fuggiamo dalle dittature?".

Per il critico cinematografico che ha speso cinque mesi nel carcere di Kahrizak, il più temibile tra le carceri iraniane “pensare che cose simili a quanto accadono giornalmente nelle carceri della Repubblica Islamica possano accadere anche in un carcere europeo, assomiglia ad un incubo”. “Sentendo quanto dicevano le persone intervistate nel documentario sulla situazione nelle carceri, soprattutto i difensori dei diritti dei carcerati- fa notare il critico cinematografico- mi sono spaventato, non avrei mai pensato che pestare un detenuto in Italia fosse un fatto quasi normale”. Il critico e la regista iraniana non hanno effettivamente tutti i torti. Pensare che nel Terzo Millennio si possa ancora morire in una struttura dello Stato senza che i colpevoli siano identificati e consegnati alla Giustizia, è veramente una cosa dell’altro mondo.  
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