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Articolo 21 - Editoriali
''Liberazione'' non può finire così: vi propongo l’autofinanziamento
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di Dino Greco

Stanno provando ad ammazzare questo giornale. Con cinica determinazione. Questo e tanti altri, ovviamente, ai quali il modestissimo (per consistenza economica) Fondo per l’editoria consentiva ancora di sopravvivere. I giornali di sinistra, e in particolare quelli della sinistra di opposizione, usciranno di scena. Tutti. Qualcuno subito, qualcun altro a ruota. Proprio nel momento in cui una coltre di asfissiante conformismo ammorba la politica italiana e una violentissima manovra antisociale, sottoscritta dalla quasi totalità del parlamento, si abbatte sul Paese, le poche voci di dissenso vengono brutalmente amputate. Con chirurgica selettività.
Perché al netto delle testate a cui potranno (forse) venire in soccorso altri ben muniti forzieri, sul selciato rimarremo noi e quanti come noi propongono, lavorano, si battono per un’alternativa di società e di Stato. E, insieme a noi, verranno azzittite le voci a cui questo giornale ha dato, spesso solitariamente, visibilità, divenendone compagno di strada e complice. Lavoratori, precari, migranti, emarginati. E poi i movimenti, quelli per l’acqua pubblica, quelli che si battono per la proprietà sociale dei beni comuni; quelli che trovano la forza di indignarsi contro l’esproprio di sovranità popolare estorta dal capitale finanziario. E ancora: quelli che si ostinano a propugnare una politica che bandisce la guerra e abbatte le spese militari; quelli che, rischiando in proprio, si oppongono alla mafia, denunciano la corruzione e il connubio indecente fra affari e politica. O quelli che si mettono di traverso di fronte al rinascente fascismo, al razzismo, alla devastazione dei principi e dei valori costituzionali; quelli delle donne che non si arrendono a relazioni sociali e familiari ancora succubi del patriarcato.
Questo mondo resistente e refrattario all’omologazione rischia di annegare, cancellato da un’informazione resa ancor più appiattita, omissiva e anestetizzante dal fatto di non dover più neppure rendere (pallidamente) conto delle proprie censure, delle proprie manipolazioni, delle proprie connivenze.
Qualche giorno fa, il sottosegretario Malinconico - che in esecuzione del mandato del presidente del Consiglio ha chiuso i rubinetti al finanziamento pubblico dell’editoria - ha spiegato che se ci è preclusa la carta stampata potremo sempre sbarcare su internet. Ora, se c’è una peculiarità della stampa che incarna una missione politica, dei giornali di partito, è proprio quella della diffusione militante, da mano a mano, casa per casa, nelle manifestazioni, nei luoghi dove si praticano la lotta e il conflitto sociale. Dove controinformazione e formazione della soggettività politica si saldano insieme, vivendo essi della partecipazione diretta dei cittadini, non dell’adesione passiva che si nutre delle suggestioni populistiche, della delega al capo e che si riconosce nei partiti personali attorno ai quali crescono torme di cortigiani e di clientes.
Avrete tutti e tutte capito che la decisione di chiudere il finanziamento pubblico dei giornali di partito e di idee non ha nulla a che vedere con la necessaria epurazione degli speculatori che si annidano nel ginepraio dell’editoria e che a puri fini di lucro hanno potuto indebitamente profittare di generose elargizioni erogate alle loro finte pubblicazioni. Avrete capito che la stessa preoccupazione legata alla spesa pubblica (ammesso e non concesso che il pluralismo dell’informazione non valga un investimento della collettività) non ha alcun fondamento, visto che gli ammortizzatori sociali necessari per tutelare il reddito di quanti perderanno il lavoro comporteranno costi ben superiori. Avrete capito, insomma, che la decisione è politica, puramente politica. Non meno di quanto lo sono le scelte in materia economica e sociale volute dal governo Monti e digerite dall’ex opposizione parlamentare come una medicina amara ma necessaria.
Però, c’è un però, grande come una casa. A voi che leggete questo giornale e in questi anni tremendi ne avete fatto uno strumento di battaglia politica e culturale, sembra possibile, ammissibile, spiegabile che Berlusconi e Monti possano decretarne la fine, senza che siamo in grado di trarre da noi stessi le risorse che ci vengono ingiustamente sottratte? Oppure dobbiamo limitarci a rivendicare il pur sacrosanto diritto di rientrare in possesso di ciò che ci è stato scippato? Possono i comunisti, può questo partito, inteso come comunità di militanti, animata da un progetto politico, produrre lo sforzo necessario ad evitare gli effetti disastrosi dell’oscuramento mediatico? E questa sfida non potrebbe essere raccolta da quanti - singole persone, associazioni, soggetti collettivi - avvertono come insopportabile il peso di una simile vulnerazione? Io credo che sia possibile. Oserei dire: guai se non lo fosse!
Vi è riuscitoo Il Fatto quotidiano, attraverso una preventiva campagna di abbonamenti che gli ha assicurato le risorse necessarie a prepararne l’esordio prima e il decollo poi. Vi è riuscito Michele Santoro, che attraverso piccole quote sottoscritte da migliaia di cittadini ha potuto lanciare il suo Servizio Pubblico. Ebbene, perché a noi dovrebbe essere preclusa questa strada? Perché dovremmo noi rassegnarci all’annichilimento, senza provare, a nostra volta, ad ingaggiarci in questa sfida?
E allora vi dico questo: da gennaio il giornale si ferma, gioco forza. Continuare al buio significherebbe andare incontro al fallimento certo con conseguenze collaterali che non voglio neppure immaginare. Proveremo poi a riaprire, nel più breve tempo possibile, l’edizione on line. Ma intanto, perché non lavorare ad un progetto di autofinanziamento, che potrebbe funzionare così: si apre un fondo, gestito da tre garanti, individuati fra personalità di specchiata integrità morale, ove fare confluire gli importi di una grande sottoscrizione popolare con i caratteri della continuità; parallelamente si lancia una campagna tesa a verificare, formalmente, la disponibilità a sottoscrivere degli abbonamenti. Dei risultati dell’una e dell’altra iniziativa daremmo sistematicamente conto, pubblicando nell’edizione on line un “contatore” che indichi i progressi economici via via conseguiti. Con l’impegno nostro a ripartire con un canale cartaceo commisurato alle risorse raccolte, non appena raggiungessimo un importo sufficiente. E, naturalmente, con l’impegno, altrettanto formale, a rimborsare le somme sottoscritte ove non riuscissimo ad integrare la somma minima necessaria.
Mi vengono i brividi mentre formulo questa proposta che, tuttavia, continua a parermi una sfida necessaria, piuttosto che un azzardo, essendo la rinuncia il vero rischio da evitare. Mi tornano in mente le parole che molti anni fa lessi sui muri di una miniera di Cardiff, dove i minatori erano impegnati in una battaglia all’ultimo sangue contro i Tories di Margareth Thatcher che avevano deciso la chiusura di tutti i pozzi del Regno Unito e la fine di una grande storia operaia. Quella scritta diceva: «Non c’è nessun disonore nella sconfitta, disonorevole è non aver mai tentato».

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