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Articolo 21 - Editoriali
La sconcertante vicenda Siae
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di Fabio Capecelatro

Si può inopinatamente cancellare, con un semplice schiocco di dita, un diritto acquisito? Venti o trent’anni fa sarebbe stato impensabile, oggi accade nella quasi indifferenza generale. E’ così che un migliaio di autori facenti capo alla Siae, da un giorno all’altro, precisamente dal primo gennaio di quest’anno, senza ricevere uno straccio di comunicazione, si sono trovati improvvisamente privati del loro assegno mensile di 615 euro, il cosiddetto “assegno di professionalità”, una sorta di pensioncina maturata versando nel corso degli anni il 4 per cento dei loro proventi nelle casse del Fondo di Solidarietà della società. Questa improvvida decisione è stata presa dal commissario Gian Luigi Rondi, dai sub-commissari Mario Stella-Richter e Domenico Luca Scordino, e dal direttore generale Gaetano Blandini, i quali hanno approvato un nuovo regolamento del Fondo, cancellando quello vecchio con effetti retroattivi devastanti.

L’“assegno di professionalità” non era un regalo, ma un diritto maturato in base a precise normative e precisi parametri. Assicurava, dal compimento del sessantesimo anno in poi, un’entrata sicura, per tredici mensilità, e per moltissimi autori costituiva l’unica fonte di reddito. Non era roba da ricchi, non era un privilegio, ma un civile e solidale riconoscimento di professionalità e di dignità ad una categoria che, per la natura particolare del suo lavoro, può conoscere momenti di fortuna ma anche, spesso, enormi difficoltà lavorative ed economiche. Occorre spiegare brevemente cos’è il Fondo di Solidarietà della Siae per capire cosa è successo, partendo dal fatto che quella degli autori è una categoria ben poco privilegiata, per le frequenti difficoltà lavorative ed economiche, ma anche perché è l’unica categoria priva di un trattamento previdenziale. Proprio per aiutare gli autori anziani, spesso ormai fuori dal mercato del lavoro, era stato istituito il Fondo di Solidarietà, che garantiva un’entrata mensile uguale per tutti.

Una boccata di ossigeno che non serviva certo per comprare ville o yacht, ma semplicemente per continuare la propria vita con quel minimo di dignità che andrebbe garantita ad ogni essere umano. Non era una pensione, ma che le somigliasse molto è indubbio, ed è questo uno dei motivi che hanno innescato quei cavilli giuridici che con incontenibile solerzia i commissari si sono affrettati a tirare fuori dal cilindro: poiché dal 2005 tutti i fondi pensione vanno sottoposti al controllo della Covip (Commissione di vigilanza sui fondi pensione), e poiché il Fondo di Solidarietà non è sottoposto a questo controllo, ne conseguirebbe – secondo la scrupolosa interpretazione dei commissari – che si tratta di un fondo “fuorilegge”. Proprio così, è incredibile a dirsi: erogare un assegno di 615 euro (seicentoquindici!) a persone anziane, bisognose (nel 90 per cento dei casi), garantire loro dunque una modesta tranquillità economica, peraltro maturata pagandosela, è un atto illegittimo, penalmente perseguibile come un qualsiasi atto delinquenziale. Esiste infatti il reato di “abusiva attività di forma pensionistica” (sic! vedere per credere: art. 19bis del d.l. n.252 del 5 dicembre 2005). Sono le fantastiche e fantascientifiche conseguenze delle astruse leggi italiane. Che, specialmente se applicate con pedissequa scrupolosità, possono produrre effetti drammatici, come nel caso in questione.

E se non bastasse questo cavillo, per corroborare la loro brutale decisione, i commissari hanno fatto riferimento ad una sentenza del Consiglio di stato (n. 97/1992) secondo la quale le prestazioni solidaristiche devono essere estese a tutti, soci e iscritti Siae (e non più solo ai soci, che guadagnavano questa qualifica sulla base dell’entità dei compensi nell’arco di un periodo circoscritto). Praticamente sono occorsi vent’anni per venire a capo di quella sentenza, trovando la soluzione più drastica che potesse venire in mente ad essere umano, soluzione che in realtà non recepisce un bel niente di quella sentenza (a leggerla bene, infatti, nello spirito invitava ad un beneficio più esteso) e penalizza praticamente quasi tutta la popolazione Siae, trasformando gli interventi di solidarietà in umilianti elemosine concesse a poche persone, sulla base di requisiti severissimi. E’ un po’ come curare un malato uccidendolo, e va detto che per compiere un’operazione contabile così semplice (“siccome fra qualche anno non potrò pagare così tante persone, non pago più nessuno fin da oggi”) forse non c’era bisogno di straordinari commissari ma bastava un ordinario ragioniere. Infine, con il nuovo regolamento viene anche cancellata la polizza assicurativa sanitaria di cui beneficiavano tutti gli associati, che adesso pertanto si trovano in una situazione ancora più precaria, raccomandando il proprio stato di salute al santo di fiducia. Insomma, un capolavoro a tutto tondo.

Al di là delle motivazioni che hanno indotto i commissari a rifare il regolamento del Fondo di Solidarietà (e motivazioni in effetti ce ne sono, ma c’è modo e modo di modificare un regolamento) resta il fatto che il provvedimento, arrogante per i contenuti e per le modalità (il fatto di non avvisare nessuno è un esempio lampante di inciviltà), aggiunge al pesante danno economico la mortificazione professionale e soprattutto la cancellazione prepotente di principi elementari, quali ad esempio la sacrosanta salvaguardia di un diritto acquisito. Gli autori che percepivano l’assegno sono 1085, e non sono disposti ad accettare supinamente la decisione dei commissari, si stanno mobilitando per promuovere una serie di azioni legali e hanno già inviato un appello al Capo dello Stato, al Presidente del Consiglio e al ministro dei Beni culturali, confortati peraltro dall’adesione di importanti associazioni e istituti. La speranza è infatti che siano le istituzioni a risolvere la vicenda, con un intervento autorevole che annulli al più presto il provvedimento dei commissari. Forse è superfluo ricordare che un atto simile non produce solo un danno economico agli autori, ma anche un danno morale più esteso: chi fa musica, chi scrive, chi realizza opere cinematografiche o radiotelevisive contribuisce a tenere alta la cultura di un paese. La mortificazione di questa categoria equivale a mortificare il paese stesso, laddove già da tempo la cultura è sottoposta a deleterie penalizzazioni.
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