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Articolo 21 - Editoriali
Senza progetto unitario mi sento a disagio
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di Lilli Gruber

Caro direttore,

non so come si senta Romano Prodi, di cui si dice che "non ha più un partito". Posso dire come mi sento io, che un partito non ho mai avuto e che, tuttavia, mi trovo a rappresentare 1.120.000 italiani dai quali sono stata eletta, giusto un anno fa, al Parlamento europeo. Mi sento a disagio. Avendo accettato di impegnarmi nel nome di un comune sentire e di un progetto unitario, ampiamente condiviso nei suoi tratti di fondo, ora devo prendere atto che nel centro-sinistra si fa strada il bisogno di "differenziare lâ??offerta politica". Il che significa concorrenza tra liste, candidati, programmi. Lâ??esatto contrario di ciò che abbiamo promesso agli italiani e di ciò che - facendo proprio il modello dellâ??Ulivo -  Berlusconi si propone di fare per tornare a vincere. Leggo che tra le incomprensioni allâ??origine della frattura nel centro-sinistra câ??è anche il mancato varo di un gruppo unitario al Parlamento di Strasburgo. Sacrosanto rammarico. Non è tuttavia ben chiaro perché - e per responsabilità di chi - non sia stato possibile riproporre in Europa il contenitore unitario sperimentato con successo alle elezioni. Forse, e nellâ??ipotesi più benevola, è stato un atto di Realpolitik, perché le grandi famiglie politiche europee (socialdemocratici, popolari, liberaldemocratici) sono quelle che conosciamo, e tertium non datur. Ma forse - ed è ciò che io penso - in quella circostanza ci sono mancati coraggio e fantasia, doti che anche in politica non guastano. Fu così che, dopo aver condotto unâ??intensa campagna elettorale allâ??insegna di un messaggio chiarissimo e di successo ("unità, unità, unità"), la mia prima incombenza da neoeletta fu quella di decidere chi - tra i miei compagni di strada - avrebbe dovuto sentirsi tradito da me. Non male, per chi allâ??unità aveva creduto come a un valore fondante. Io scelsi di sedere come indipendente nel gruppo del Pse, e non me ne pento affatto. Ma non era quello il mandato ricevuto, così come non lo sarebbe stato se avessi optato per il gruppo liberaldemocratico. Gli elettori volevano, e vogliono, che le diversità siano ricondotte a sintesi, che le sfumature siano sacrificate alla sostanza.  E non lo vogliono solo gli elettori: lo richiede la complessità dei problemi che abbiamo di fronte. Vedo invece che si persevera nellâ??errore. Non mi preoccupa la rivendicazione che ciascuno fa della propria identità politica e il legittimo desiderio di misurare con i voti il proprio appeal elettorale, ma un patto: che queste siano le premesse di un costruttivo stare insieme e non diventino invece lâ??umore permanente allâ??interno di una coalizione forzosa e rissosa. Finiremmo con il sacrificare sullâ??altare di ambizioni secondarie un patrimonio di lavoro e di fiducia costruito negli anni. So che non saranno certo le prediche e gli appelli a impedire la deriva. Lâ?? unico antidoto incisivo, mi pare, è lâ??apertura formale del confronto sul nostro programma di governo. Per una sorta di antica vocazione allâ??autolesionismo, il centro-sinistra si ostina a glissare su questo punto cruciale. Eppure il programma câ??è, come ricordava ieri Giuliano Amato. Quello per lâ??Europa - scritto proprio da lui - è di straordinaria pregnanza e attualità. I miei colleghi legislatori francesi o tedeschi  ne fanno spesso uso. Quanto allâ??Italia, non scherziamo. Abbiamo una cultura riformista che ha radici profonde e robuste, che non ha certo bisogno di essere rifondata o addirittura "inventata". Chi vuole apprezzarne lo spessore può consultare le schede e le proposte che la Fabbrica prodiana del Programma va raccogliendo. Oppure può sfogliare i paper che le Università americane dedicano al buon governo (nel campo della scuola, del turismo, della cultura, della sanità) delle nostre Regioni più avanzate. Distilliamo il meglio di questa cultura e proponiamolo al confronto dei partiti e delle persone che si candidato a governare lâ??Italia. Quando questo confronto sarà avviato, spero il prima possibile, resterà poco spazio per quel gioco delle parti che rischia di regalarci altri cinque anni di Cavalierato.

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