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Articolo 21 - Editoriali
Inferno Congo: la grande rapina del nuovo secolo
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di Marc Innaro*

«Potenze straniere, in combutta con i nostri fratelli congolesi, ancora una volta hanno organizzato la guerra per le risorse naturali del nostro Paese. Le nostre ricchezze oggi servono solo ad ucciderci. Il nostro  Paese, il nostro popolo, sono diventati oggetto di sfruttamento. Tutto  quel che ha valore è saccheggiato, esportato, o semplicemente distrutto».  La notte di Natale del 1999, a monsignor Emmanuel Kataliko, vescovo di   Bukavu, questa omelia onesta e coraggiosa costò l'esilio a Roma, in   Vaticano, dove morì d'infarto poco dopo l'arrivo. Non lontano dalla chiesa   in cui aveva tuonato contro il saccheggio del Congo, il suo predecessore, Christophe Munzihirwa, era stato giustiziato a colpi di kalashnikov sulla  piazza centrale di Bukavu da un gruppo di ribelli congolesi e di soldati   ruandesi che stavano dilagando in città. Da allora, per la gente di  Bukavu, monsignor Munzihirwa è diventato il simbolo dei tanti martiri, sconosciuti all'opinione pubblica mondiale, che hanno sacrificato le  proprie vite per la pace in Congo. Sorvolando le immense estensioni di giungla fittissima che ricopre buona parte delle provincie orientali, niente farebbe pensare che questo pezzo di Eden sia invece divenuto l'inferno in terra per i suoi abitanti.

Il Congo è uno dei paesi più ricchi al mondo di risorse naturali, il sottosuolo letteralmente ne  trabocca. Ma i suoi 66 milioni di abitanti muoiono di fame, di malattie e   di stenti, senza poter usufruire di tali straordinarie ricchezze. Nel  cortile del «comptoir» di Maurice Ciyane, un commerciante di minerali diBukavu, sulle rive del lago Kivu, al confine fra Congo e Ruanda, come ogni  giorno Pierre pesta con gesto paziente nel mortaio un misterioso minerale  di colore grigio-scuro, quasi nero. Deve trasformarlo in polvere   finissima, qui tutti lo chiamano coltan, e da alcuni anni riveste un'importanza economica e strategica immensa. Il coltan è un composto di    due minerali piuttosto rari, il Niobio e il Tantalio. Ed è proprio il        Tantalio ad aver scatenato, a partire dalla seconda metà degli anni '90,        una corsa frenetica, planetaria, verso il Congo. Pochi lo sanno, ma  proprio nelle regioni orientali della Repubblica democratica del Congo si concentra la maggior parte delle riserve mondiali di tantalio. Molto più potente del silicio, il tantalio è un componente fondamentale per  l'industria elettronica. Straordinario conduttore, inattaccabile da quasi    tutti gli acidi, resistente alle altissime temperature, serve a        ottimizzare il consumo di corrente elettrica nei chip di nuovissima   generazione. Condensatori al tantalio si trovano praticamente in ogni    telefono cellulare, in ogni telecamera digitale, nei computer portatili,   nei palmari. Il tantalio permette un enorme risparmio energetico e una   straordinaria velocità e versatilità degli apparecchi. Non è un caso,    quindi, che venga utilizzato anche nelle playstation, per gli airbag delle   automobili, nei motori dei missili e dei jet, nei radar. Basti pensare che        le industrie elettroniche ed aerospaziali di Stati Uniti, Europa e   Giappone consumano il 75 per cento del tantalio estratto a livello   mondiale.

Nelle regioni orientali del Congo, il coltan si trova in enormi   quantità, persino nel terriccio e nel fango della foresta pluviale.  Estrarlo è facile ma anche molto faticoso: bisogna disboscare un pezzo di    giungla, scavare e filtrare il fango con l'acqua, finchè si deposita sul   fondo, grazie al suo notevole peso specifico. «Alla fine degli anni '90,   in pieno boom dell'industria hi-tech, il prezzo del coltan - ci dice un  del comptoir di Bukavu - era schizzato alle stelle, fino a quasi  400 dollari al chilo. Tutte le grandi multinazionali del settore erano   letteralmente affamate di questo minerale. E tutte lo hanno acquistato  anche qui, in Congo. Ma adesso le quantità di minerali che giungono a   Bukavu sono ai minimi storici. Il motivo? L'assoluta mancanza di   sicurezza, troppo pericoloso andarsene in giro con sacchi di minerali». Del resto, rapina, saccheggio, massacri, corruzione, impunità, in Congo  sono all'ordine del giorno da almeno 120 anni. Da quando, nel 1885, Leopoldo II, re del Belgio, creò il cosiddetto «Stato Libero del Congo», un elegante eufemismo per non dover ammettere che terre, foreste, persone  e risorse naturali, tutto diventava da quel momento esclusiva proprietà    privata del re belga. Prima per l'avorio, poi per il caoutchou, poi ancora        per l'olio di palma o per il cotone, durante 80 anni di era coloniale, il   Belgio depredò brutalmente il Congo. Le cose non cambiarono granchè dopo   il 30 giugno del 1960 con l'indipendenza. Due settimane dopo, il primo ministro   Patrice Lumumba si trovò a fronteggiare una rivolta dell'esercito e il   tentativo di secessione della ricchissima provincia del Katanga, secessione   sostenuta    da Belgio e Stati Uniti. Lumumba fu assassinato nel 1961 su ordine di   Mobutu Sese Seko, ex-agente dei servizi segreti belgi, che, appoggiato da  Bruxelles, con un colpo di stato militare, riuscì poi nel 1965 a diventare   presidente. Come Leopoldo secondo, come il Belgio, per 30 anni Mobutu  gestì il Congo alla stregua di una ditta privata. Brutalità, repressione,  incompetenza, corruzione, nepotismo. Alla metà degli anni '90, ormai  vecchio, malato e scandalosamente ricco, Mobutu era diventato   impresentabile, ma soprattutto inutile, visto che era crollato l'impero        sovietico: i suoi ex-protettori decisero di cambiare cavallo. Previdentemente, per un paio d'anni avevano finanziato e armato un   capo-ribelle del Katanga, Laurent-Desirè Kabila, ex comunista, ex maoista,  ex compagno d'armi di Che Guevara, ma anche ex commerciante di oro e  avorio.

Nel maggio del 1997, Kabila entrò trionfalmente a Kinshasa, alla  testa del suo esercito di ribelli, dopo una lunga marcia di duemila  chilometri. Mobutu morì poco dopo in esilio, in Marocco, con un patrimonio   di 4 miliardi di dollari. Quel che non tutti sanno, però, è che prima di    partire alla conquista di Kinshasa, Kabila aveva firmato contratti   miliardari preventivi con alcuni i paesi limitrofi, Ruanda e Uganda, e con i   grandi importatori occidentali di minerali. Americani, ovviamente, ma anche belgi, inglesi, tedeschi, giapponesi, russi, kazaki, israeliani,   persino pachistani. I nomi degli stessi destinatari che, a dire il vero,  leggiamo a Bukavu sui bidoni e sui sacchi di coltan e di cassiterite di  Maurice Ciyane, il grossista di minerali. Quel che colpisce è che,  violando la sovranità dell'allora Zaire, nel '97 i grandi importatori di minerali avevano ottenuto da Kabila contratti e concessioni per lo  sfruttamento minerario di estensioni enormi di territorio prima ancora che queste passassero sotto il suo controllo. Fu talmente frenetica la corsa   contro il tempo da parte delle grandi multinazionali che, un mese prima   della caduta di Kinshasa, così cominciava l'articolo dell'inviato del New  York Times: «La pista dell'aeroporto di Lubumbashi è piena di jet privati.       

? sbarcata una quantità incredibile di manager di compagnie minerarie. Stanno firmando contratti di favore, malgrado la totale incertezza circa  il futuro. L'unico albergo decente della città è diventato il loro  quartier generale». In quei giorni si arrivò al punto che la Bechtel Corporation, un colosso multinazionale americano con sede a San Francisco,  commissionò alla Nasa la mappatura completa del Congo ai raggi infra-rossi per determinarne il potenziale minerario. Le informazioni, ottenute coi satelliti, valevano una fortuna e furono cedute gratuitamente a Kabila. La   stessa Bechtel, da sempre in ottimi rapporti con la Cia, mise a disposizione di Kabila e dei suoi alleati ugandesi e ruandesi le  informazioni militari di un satellite-spia, che consentì ai ribelli di sbaragliare con rapidità le truppe di Mobutu. Con l'ascesa al potere di  Kabila, nel maggio del '97, non solo il coltan ma anche oro, diamanti,cassiterite, cobalto, zinco, rame, cominciarono a uscire dal Congo in quantità impressionanti. Cifre da capogiro. Eppure, la luna di miele fra  Kabila e i suoi amici finì molto presto perché nel maggio del '98 Laurent   Kabila nazionalizzò una grande società ferroviaria.

E pochi giorni dopo, davanti a un gruppo di diplomatici, dichiarò di voler favorire le  industrie e le società della neonata Repubblica Democratica del Congo.  Dichiarazioni che misero immediatamente in allarme le grandi corporations  occidentali. Tre mesi dopo, nell'agosto del 1998, Ruanda e Uganda invasero    di nuovo il Congo, ma stavolta, gli alleati si erano trasformati in nemici di Kabila. Avevano creato dal nulla un nuovo gruppo ribelle, da loro  interamente armato e finanziato. E, nemmeno a dirlo, le popolazioni delle regioni di Kivu e Ituri videro di nuovo atterrare, sulle piste nel mezzo   della giungla, gli stessi jet privati con gli stessi manager occidentali,        che stavolta venivano a rinegoziare contratti e concessioni di favore con   i nuovi leader ribelli.

Dal gennaio del 2001, al potere non c'è più   Laurent-Desirè Kabila, assassinato da una guardia del corpo in circostanze   che non sono mai state del tutto chiarite. Al posto di Kabila è subentrato il figlio Joseph, ex-Capo di Stato Maggiore dell'Esercito. Grazie alla  paziente e preziosa opera di mediazione del Sudafrica, dell'ONU e della   Comunità di Sant'Egidio, il nuovo presidente sta dimostrando una notevole   capacità negoziale e una grande duttilità, qualità che gli hanno consentito di varare un fragile governo di transizione e una nuova  Costituzione. In attesa delle elezioni che pero' sono state rinviate al 2006.   Ufficialmente, in territorio congolese, oggi non ci sono più soldati del  Ruanda e dell'Uganda. Ma restano sempre le milizie loro alleate.  Tuttavia, coltan, cassiterite, cobalto, oro, stagno, zinco, uranio,        continuano ad essere esportati illegalmente in Ruanda e in Uganda, da dove poi sono rivenduti, a prezzi più alti, ai grandi importatori occidentali. Se, fino a qualche anno fa, a Bukavu erano ben 19 i grandi grossisti che acquistavano minerali dai privati, oggi ne sono rimasti solo quattro. «Il grosso problema, per noi - ci dice Maurice Ciyane- è il rifornimento di  minerali. Gli hutu ruandesi occupano praticamente tutte le zone minerarie  della regione di Kivu. I minatori non riescono più ad arrivarci  liberamente. E chi ci va, lo fa a rischio della propria vita. Pensi che abbiamo un fornitore che da mesi dispone di grandi quantità di coltan, ma    per lui è troppo pericoloso avventurarsi in camion fin qui a Bukavu».

Ma allora i minerali partono direttamente per il Ruanda? «Certo, esiste un altro circuito ben organizzato, e ovviamente clandestino. Sappiamo che non  ha mai smesso di funzionare. Dove poi venga spedita la produzione, noi qui  non lo sappiamo. Ecco, sì, è una mafia, è proprio una mafia».       

In due rapporti esplosivi delle Nazioni Unite, redatti da un gruppo  internazionale di esperti, prima nel 2000 e poi nel 2003, si citavano 34  grandi società occidentali, importatrici di minerali congolesi attraverso   il Ruanda. Si denunciava addirittura la complicità della Sabena, la ex-compagnia di bandiera del Belgio, accusata di trasportare il coltan dall'aeroporto ruandese di Kigali ai destinatari finali in Europa.  Una torta talmente ricca che nell'anno 2000, il solo esercito ruandese   lucrò 20 milioni di dollari al mese, e con il solo traffico di coltan. Ma,  si sa, l'appetito vien mangiando. Da Bunia a Goma, da Bukavu a Kindu, le  milizie ribelli, che fino a poco prima erano alleate, e i loro protettori  ruandesi e ugandesi, tutti cominciarono a contendersi il controllo delle  aree minerarie più ricche. Vere e proprie battaglie campali che in poco tempo sfociarono in conflitti fra etnie e tribù. Oggi questo è il   risultato: villaggi e campi bruciati, immensi campi-profughi, bande armate  senza più alcun controllo, disintegrazione del già disastrato tessuto sociale. E un bilancio spaventoso delle vittime: 1.000 morti al giorno,  ossia 30.000 al mese, 360.000 all'anno. Secondo cifre concordanti di  numerose agenzie dell'Onu e di molte organizzazioni non governative, si   calcola che dal 1997 ad oggi 3 milioni e 800mila morti siano da   attribuire, direttamente o indirettamente, al conflitto. Colera, malaria,  epatite, infezioni respiratorie, carestia, malnutrizione, deforestazione,   saccheggi, stupri, massacri di interi villaggi. ? sconvolgente la        conclusione dei due rapporti stilati dagli esperti Onu: «Le grandi  multinazionali minerarie sono state il motore del conflitto ancora in  corso, e hanno preparato il terreno per le attività illegali e criminali di estrazione nella Repubblica Democratica del Congo». Chi non può e non  vuole tacere sono spesso solo i missionari. Come i padri saveriani, che ci ricevono di sera nella loro parrocchia in collina, un'oasi di pace e di  serenità nell'inferno di Bukavu. Padre Franco Bordignon vive in Congo da   oltre 30 anni. ? impietosa, senza appello, la sua condanna per il silenzio      colpevole dell'Occidente e dei suoi mass-media: «Oggi - dice - una realtà  è vera se è vista, se è portata di fronte alla gente. Qui non sono uscite  immagini, riprese. Ne deduco che non si è voluto far sapere. Evidentemente  chi tira le fila di tutto ciò ha più potere dei politici stessi. Vorrei  che fosse chiaro: la guerra del Congo non è una guerra etnica, perchè il   Congo ha più di 400 tribù e non si ricordano, nella storia di questo   Paese, lotte fra etnie e tribù al punto da creare genocidi».

Con una laurea in medicina e la specializzazione in ginecologia, il dottor Denis        Mukwege lavorava da anni in Francia. Qualche anno fa, la scelta coraggiosa, temeraria di tornare in patria, a Bukavu, con moglie e 5 figli. Assieme a una volontaria inglese, oggi il dottor Mukwege è l'unico medico ad operare nell'ospedale di Panzi, specializzato in cura e  assistenza alle donne vittime di stupri e di violenze sessuali. Quelle che        abitano troppo lontano, o che sono state rifiutate dalle proprie famiglie,  o che sono in degenza post-operatoria, sono ammassate a decine in un paio  di stanzoni dell'ospedale di Panzi. Due, tre, quattro donne per letto, spesso con i figli nati da quegli stupri. «Solo l'anno scorso - spiega  Mukwege - abbiamo avuto 3.650 ricoveri di donne violentate. Di queste, 560  sono state sottoposte ad intervento chirurgico.

Le donne che giungono al   nostro ospedale hanno tutte subito gravissime violenze sessuali. La più  giovane è stata una bimba di 3 anni, la più anziana aveva 75 anni. In  maggioranza si tratta di bambine, di ragazzine di 10, 12, 14 anni. Rapite, violentate, usate come schiave sessuali dai gruppi armati ribelli. Spesso        rimangono incinte». Susan ha 45 anni, 8 figli. ? seduta sulle luride   lenzuola di uno dei tanti letti sovraffollati. La sua storia, terribile, è  solo una delle tante: «Vengo dal villaggio di Maleghe. A gennaio, 5   ribelli armati ruandesi sono venuti dalla foresta. Sono entrati nella mia   capanna, io dormivo. Erano le 5 del mattino. Hanno ordinato a mio marito  di uscire. Hanno detto che mi volevano. Mio marito si è opposto. Lo hanno picchiato e legato. Poi, uno di loro, che sembrava il capo, ha cominciato a violentarmi. Ho tentato di resistere. Mi ha spezzato la clavicola. Non sono più riuscita a difendermi. Quando il primo ha finito, gli altri 4 si sono spogliati e, l'uno dopo l'altro, mi hanno violentata. Quando hanno   finito, hanno rubato tutto quello che avevamo in casa, hanno preso mio   marito e sono tornati nella foresta. Per alcuni giorni, non abbiamo saputo  più nulla di mio marito. Poi lo hanno liberato. Eppure, io sono fortunata   perché sono viva. Mia cugina, invece, aveva 6 figlie. Quel giorno di   gennaio, volevano portarsele tutte nella foresta. Mia cugina tentò di   impedirglielo. L'hanno ammazzata davanti a tutti e hanno preso le sue 6    figlie. Le hanno legate per i polsi ad una lunga corda e le hanno portate        via dopo averle violentate, una per una, davanti a tutti. Da quel giorno, non sappiamo più nulla di loro».
Secondo un calcolo approssimativo, per difetto, realizzato sulla base delle testimonianze raccolte, quindi   assolutamente parziale, le donne e le bambine violentate in Congo, dal '98  ad oggi, sono almeno 40.000. Soprattutto nelle province orientali di Kivu  e Ituri, confinanti con Ruanda e Uganda. A Bunia, non lontano dal lago  Albert, una Ong italiana, la Coopi, assieme ad alcune Ong congolesi, ha   assistito in 2 anni più di 5mila vittime di violenze sessuali. Ogni  settimana, ci dicono i responsabili, arrivano circa 60 ragazze, quasi tutte minorenni. Impossibile parlare con loro: i responsabili della Coopi  non vogliono compromettere il loro delicatissimo percorso psicologico che   dovrebbe sfociare in un difficile reinserimento nella società. «Robust peace-keeping», «Mantenimento della pace muscolare, robusto». Questo è il nuovo mandato con cui, solo da pochi mesi, sono chiamati ad operare i 16.700 caschi blu presenti in Congo. La Monuc, questo è il nome della  missione delle Nazioni Unite, è la più numerosa e anche la più cara fra   tutte le operazioni di pace dell'Onu nel mondo. Costa all'incirca un        miliardo di dollari all'anno. Ma quando i primi caschi blu sbarcarono in  Congo nel marzo del 2001, di fronte al precipitare di una crisi umanitaria  che ormai aveva assunto le proporzioni di un vero e proprio genocidio, il  loro mandato si limitava all'osservazione e all'interposizione.
Troppo poco e troppo tardi: in una situazione di caos completo, di immane emergenza umanitaria, di implosione di tutte le già traballanti strutture  militari e civili del Congo, fino a poco tempo fa il mandato dei caschi  blu aveva di fatto significato la resa incondizionata della comunità   internazionale ai «signori della guerra», ai predatori delle enormi   risorse naturali del Paese. Per fortuna, oggi le cose non stanno più così.      

Il 1 aprile scorso è scaduto l'ultimatum con cui la Monuc intimava il   disarmo a tutte le fazioni, a tutti i gruppi armati, congolesi e  stranieri, operanti nelle regioni orientali del Congo. A Bunia, ma anche   in altre basi della Monuc nelle regioni orientali di Kivu e Ituri, da  settimane i caschi blu marocchini fanno l'inventario della quantità        incredibile di armi e munizioni consegnate dai ribelli che hanno accettato    il programma nazionale di disarmo e di smobilitazione. Aggirandosi fra i cumuli di armi prese in consegna dai caschi blu, non si può non rimanere  stupiti dalla loro varietà e dalle diverse provenienze. ? il trionfo del  mercato globale: kalashnikov non solo russi, anche «Made in China» o in  Jugoslavia. Micidiali Uzi fabbricati in Belgio, ma su licenza israeliana.   Persino mortai dell'esercito Usa, con tanto di numero di matricola,  arrivati chissà come, chissà quando. ? un lavoro lungo, paziente, di        catalogazione, quello che vede assieme, fianco a fianco, ufficiali  pachistani e del Bangladesh, svizzeri e marocchini. Una volta consegnata        la propria arma, ogni ribelle smobilitato riceve dai caschi blu marocchini        un certificato di disarmo che gli dà il diritto di ottenere un incentivo        di 50 dollari e di partecipare, per alcuni giorni, ad un corso di        reinserimento rapido nella vita civile. Al termine, prima di ricevere la  carta di smobilitazione, ad ogni ex-combattente viene fotografata l'iride:        l'unico modo - ci viene spiegato - per evitare che la stessa persona si        ripresenti qualche giorno dopo con un'altra arma per ottenere un nuovo        contributo economico. Mentre andiamo via, incontriamo Laurent. Era un        diacono di una chiesa protestante a Bukavu.
«Quando un gruppo armato  ammazzò mia moglie e le mie figlie, io mi arruolai in un gruppo nemico per  vendicarmi. Grazie a Dio, non ci sono riuscito. Non sapevo nemmeno con chi        me la dovevo prendere, chi le aveva uccise. Poi, col tempo, mi sono        chiesto: ma perché devo vendicarmi? Mia moglie, le mie figlie ormai sono        morte». Nel suo ufficio spartano, supeprotetto dai caschi blu, da quasi  due anni c'è una donna a dirigere la missione Onu a Bunia. Tutti la   chiamano «Madame». Ma Dominique Mc Adams ha il piglio e l'autorità di un  generale di corpo d'armata: «Dal primo di aprile abbiamo ottenuto il        disarmo di 11mila combattenti sui 15mila stimati nella regione. Ora,        purtroppo, abbiamo a che fare con gli irriducibili, con quelli che non ne        vogliono assolutamente sapere. Chiamateli terroristi o ribelli, questi  4.000 armati rifiutano di smobilitare. Eppure, tutto sommato, e' relativamente       facile disarmare un combattente. Molto piu'difficile e'offrirgli una valida  alternativa a lungo termine.

Siamo chiari: se la comunita' internazionale non  e' pronta ad aiutare il Congo a mettere in piedi un esercito e una polizia davvero        disciplinati, efficienti e ben pagati, nessun problema sara'mai risolto in       questo Paese».       Cinquecento chilometri più a sud, nella torrida piana di Rusizi, lì dove        Ruanda, Burundi e Congo sono separati solo da un fiume, le parole di  Madame Mc Adams trovano una tragica, dolorosa conferma. Case diroccate, squallide capanne di paglia, torme di uomini in uniformi sbrindellate e  lercie, sciami di mosche. All'ingresso, un cartello dipinto a mano:        «Centre de Brassage». Nome pomposo per indicare il luogo in cui gli        ex-combattenti di fazioni armate, fino a ieri in lotta fra loro,        dovrebbero ora prepararsi a formare il nuovo esercito della Repubblica        Democratica del Congo. Malgrado il nome, la realtà è assai meno        promettente. Quando sono pagati (e non lo sono da 3 mesi) ricevono uno    stipendio mensile di 7 euro. Sono accampati in condizioni che definire  disumane è decisamente riduttivo. Quasi tutti questi futuri   soldati/ex-briganti non sanno fare altro che maneggiare armi. Conoscono        ben poco di una vita normale: solo la terribile esperienza di una guerra        che li ha semplicemente travolti. Altro non possiedono se non l'arma che        portano sempre con sé. E da settimane aspettano. Intanto bivaccano, fumano, dormono. E attendono, nella speranza finora vana di una vita più  degna, che finalmente venga avviato il programma di loro integrazione  nell'esercito. Ma per i 3.000 uomini di questo Centre de Brassage, l'unica        acqua potabile, soltanto mille litri al giorno, è quella offerta dai        caschi blu dell'Onu. Per lavarsi, bisogna arrangiarsi con le fetide acque        di un ruscello, di fatto una fogna a cielo aperto. Col risultato che il        colera ha già mietuto decine di vittime. Come ogni sabato dalla chiesa        cattolica del Carmelo, giungono, intanto, portate dal vento, le voci di un coro in lingua swahili. Sono le voci di uomini e donne che stanno provando i   canti della messa domenicale. Malgrado tutto, nemmeno qui a Goma la speranza       è ancora morta.  

*da Goma

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