di Paolo Franchi
Ogni testimonianza impegna solo il testimone, non i suoi cari, i suoi amici, i suoi conoscenti; né, tanto meno, chi ha condiviso per un tratto di vita il suo percorso e il suo mondo. Così è in generale, e così ancora di più è, se possibile, anche per la bella intervista di Stefano Grossi a Luigi Pintor ( Azione è uscire dalla solitudine ), distribuita in questi giorni nelle edicole dal Manifesto in Vhs: perché Pintor è stato davvero un personaggio unico, irripetibile, nel panorama della politica, della cultura e del giornalismo di questo Paese. Ma, se è lecito formulare in questa sede, come pudicamente suol dirsi, un consiglio per gli acquisti, consiglierei ai lettori, e non soltanto ai lettori di sinistra, di acquistarla. E di dedicare un'oretta alle considerazioni inattuali che Pintor formula rispondendo alle domande di Grossi, che lo chiama a commentare e a spiegare meglio passaggi chiave di alcuni suoi libri, Servabo , Il Nespolo , La signora Kirchgessner , I luoghi del delitto . Nella sua particolarissima maniera, Pintor non esita infatti ad affrontare questioni cruciali, questioni sulle quali, per viltà , conformismo o impotenza, tanti preferiscono sorvolare. E non esita a mettere a fuoco pensieri sconvenienti, e magari anche sorprendenti, almeno per chi giudica secondo cliché facili e consolatori gli uomini e le cose. Sulla libertà e l'uguaglianza, per cominciare. Comunista, fondatore e a lungo direttore di un quotidiano che tuttora comunista orgogliosamente si definisce, Pintor quasi ne teorizza l'inconciliabilità pratica. Non solo: riconosce che l'uguaglianza non alberga nel cuore degli uomini. Perché ogni essere umano è diverso da tutti gli altri, si capisce, e questa diversità intende difenderla e valorizzarla. Ma anche, dice, per un motivo molto più profondo e, ai suoi occhi, con ogni probabilità , terribile: e cioè perché, in fondo all'animo, ogni essere umano si sente superiore ai propri simili.
Una resa alla modernità , al liberismo, addirittura al darwinismo sociale? Neanche per idea: Pintor è stato forse il comunista italiano, seppure eretico, al quale più si attagliava l'ossimoro del suo compagno e amico Enrico Berlinguer sui comunisti «conservatori e rivoluzionari» a un tempo. Il mondo moderno, o almeno questo mondo moderno, anche nelle risposte che dà a Grossi, gli appare, prima ancora che ostile, estraneo e, soprattutto, insensato. Non rinuncia (non ha mai rinunciato, fino all'ultima riga che ha scritto) a rivolgergli contro le armi della critica, dell'ironia e, talora, del sarcasmo. Ma si rifiuta di considerare il potere (la lotta per il potere, la «presa del potere», come recitavano i classici del leninismo, l'esercizio del potere) la leva decisiva per cambiare questo mondo: il potere è pessimo e, comunque, induce chiunque lo eserciti a dare il peggio di sé.
E nega, lui, un comunista, l'esistenza di un traguardo finale, di una città futura. Quel che conta, dice, non è l'obiettivo, che di volta in volta muta, e si complica, e si allontana, o forse semplicemente non c'è, e in ogni caso è destinato a generare altra ingiustizia, altra sofferenza, ma il cammino che si compie per raggiungerlo, lo spirito critico che si accumula, i mutamenti che via via si determinano. Solo in questo senso, «l'uscita è in fondo, a sinistra»: viandanti, non pellegrini. Sosteneva Eduard Bernstein: «Il movimento è tutto, il fine è nulla». Di certo Bernstein, a Pintor, spiaceva assai. Non sorprende, ma colpisce, apprendere da questa intervista che, da sinistra, Pintor, il grande pessimista, era arrivato a conclusioni simili.