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Articolo 21 - Editoriali
New York Times giornalista protegge la fonte e va in carcere
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di Giuseppe D´Avanzo

da La Repubblica

JUDITH Miller del New York Times è da ieri in carcere (al contrario di Matthew Cooper di Time che lo evita: coinvolto nella stessa vicenda, ha accettato di testimoniare, autorizzato dalla sua fonte). La giornalista, esperta d´armi di distruzione di massa, non ha voluto consegnare al giudice il nome delle fonti anonime della Casa Bianca che le consentirono di rivelare l´attività segreta di Valerie Plame, agente della Cia (è un reato federale). ? il caso che, in apparenza, ripropone la questione (e la legittimità) del segreto professionale. Gli avvocati del Nyt e di Time hanno sostenuto che «informazioni importanti andranno perdute per il pubblico se i giornalisti non possono promettere con certezza l´anonimato alle loro fonti». Rendere pubbliche le fonti, ha osservato il presidente della Federazione internazionale dei giornalisti (Ifj), Aidan White, «è un grave tradimento d´un principio cardine della professione». Da questo punto di vista, sembra che al centro della contesa sia il diritto del giornalista di proteggere dinanzi alla legge le sue fonti. Si sa, molto spesso le fonti riservate sono, per il cronista, il solo modo per venire a capo di una storia. Elimina quelle, e il giornalismo ne resterà azzoppato. Dà sempre provoca preoccupazione e amarezza vedere un giornalista finire in galera, ma è utile chiedersi se sia davvero la questione della fonti anonime l´essenziale dell´"affare Miller".
Occorre ripercorrere il "caso", che vede in azione anche una "manina" italiana. Autunno 2001. Il Sismi mostra al field officer della Cia a Roma alcune carte che dovrebbero documentare il tentativo di Saddam di acquistare 500 tonnellate d´uranio puro dal Niger. Il boccone è ghiotto. Washington è alla ostinata ricerca di "prove" della pericolosità del dittatore. Il dipartimento di Stato spedisce in Niger l´ambasciatore Joseph C. Wilson per controllare il dossier dell´intelligence italiana. Un paio di giorni e qualche colloquio sono sufficienti a Wilson per comprendere che la storia è falsa. L´ambasciatore torna negli Usa. Con disappunto dell´amministrazione, distrugge le "promettenti" rivelazioni. A quel punto, dentro la Casa Bianca, c´è chi "spiffera" ai due cronisti che la moglie di Wilson, Valerie Plame, è un´analista della Cia. La mossa ha due obiettivi. Il primo è ritorsivo ed educativo. Si vuole punire Joseph Wilson per non essersi adeguato alle aspettative della Casa Bianca e mostrare che cosa può accadere ai funzionari dell´amministrazione che rifiutano di allinearsi. Il secondo è politico. I "falchi" vogliono dimostrare che "le tendenze liberali" della Cia la rendono cieca, inutile e inattendibile nella Guerra al Terrore.
Declinato così, il diritto del giornalista a proteggere le fonti anonime non è il focus dell´affare Miller. Se fosse questo, non varrebbe nemmeno la pena parlarne. Proteggi la fonte che, con lealtà, addirittura con disinteresse, ti consente un passo in avanti nella tua ricerca. Non proteggi chi ti ha manipolato per lanciare una violenta campagna di discredito e di menzogna. A tutti può naturalmente capitare di finire, per troppo entusiasmo o ingenuità, in un intrigo politico come questo ma, quando ci sei dentro, puoi tirartene fuori indicando chi ti ha ingannato. Perché è la fonte che è venuta meno al patto fiduciario, che ha tradito la comune e condivisa convinzione di dover ricostruire un tassello di verità. Se il cronista non è complice della fonte, perché in queste condizioni non svelarne l´identità? In questo caso, Judith Miller non sta proteggendo le sue fonti riservate, ma la natura complice del rapporto con le fonti della Casa Bianca. ? la complicità tra informazione e politica, la sostanza del "caso" che divide il giornalismo americano. ? stato scritto che l´affare Miller è il conflitto giudiziario tra media e governo più grave dai tempi dei Pentagon Papers. Proprio ripercorrendo quel conflitto del 1971 si può comprendere che cosa è in discussione nel "caso Miller".
Nel 1967 Robert S. McNamara, allora ministro della Difesa, commissiona lo studio che passerà alla storia come i Pentagon Papers (I documenti del Pentagono), l´imponente ricostruzione storica e "segretissima" di come gli Stati Uniti finirono nel pantano dell´Indocina, di quali furono le decisioni prese, del come e perché furono prese e su chi le prese. Il New York Times, il 13 giugno 1971, inizia la pubblicazione di una serie di articoli basati su questi documenti. Dopo le prime tre puntate, il ministero della giustizia ottiene dalla Corte federale di New York la sospensione delle pubblicazioni sostenendo che «gli interessi degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale avrebbero subito un danno irreparabile dalla diffusione del dossier». Il 30 giugno 1971, la Corte Suprema degli Stati Uniti autorizza i giornali (al New York Times s´era aggiunto intanto il Washington Post) a continuare la pubblicazione. Con una maggioranza di sei a tre, i giudici ritengono che il diritto alla libertà di stampa, in forza del Primo emendamento della Costituzione, debba prevalere «su qualsiasi considerazione accessoria intesa a bloccare la pubblicazione delle notizie». ? l´ultima sentenza del grande costituzionalista Hugo Black, che muore 85enne in quello stesso anno. «Oggi per la prima volta nei 192 anni trascorsi dalla fondazione della repubblica - scrive Black - viene chiesto ai tribunali federali di affermare che il Primo emendamento significa che il governo può impedire la pubblicazione di notizie di vitale importanza per il popolo di questo Paese. La stampa (dal punto di vista dei Padri fondatori) deve servire ai governati non ai governanti. Il potere del governo di censurare la stampa è stato abolito perché la stampa rimanesse per sempre libera di censurare il governo».
Per chi hanno lavorato Judith Miller e Matthew Cooper svelando l´identità di Valerie Plame? Per i governati? O per i governanti?
Chiunque può rendersi conto che le rivelazioni di Miller e Cooper non erano utili ai governati per formarsi un´opinione (esistevano in Iraq le armi di distruzione di massa?), ma erano strumento dei governanti per deformare la realtà e impartire una lezione a un civil servant che, negando l´esistenza di quelle armi, ha voluto svolgere la sua missione con imparzialità, integrità, indipendenza e non nell´interesse di un gruppo di potere. Come si comprende con la sentenza di Hugo Black, il caso Miller&Cooper ci parla in negativo di quale deve essere la funzione della stampa, la sua necessità sociale, la ragione costituzionale. Il lavoro del giornalista non ha altro significato che proteggere, nell´interesse dei governati, «il senso grazie al quale ci orientiamo nel mondo reale». Non ha altra responsabilità che la custodia dell´integrità dei fatti (al tempo stesso fragili e ostinati) che non sono mai al sicuro nelle mani del potere. La rete di protezione dai poteri sociali e politici è assicurata alla stampa non come fine a se stessa, ma come un puntuto strumento per garantire ad altri, ai governati, il diritto di maturare liberamente le proprie opinioni con un´informazione basata sui fatti e non manipolata. Senza quest´onesta informazione, «non sapremmo mai dove siamo» (Hannah Arendt). ? un lavoro che impone di collocarsi al di fuori dell´ambito politico, di essere comunque "estraneo". ? dell´estraneità perduta o compromessa della stampa americana, della straordinaria estensione della menzogna politica ai tempi della Guerra al Terrore che parla il "caso Miller".

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