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Il ricatto di Pomigliano
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di redazione

Il ricatto di Pomigliano Non sorprende la massiccia adesione (95%) al referendum a cui i dipendenti dello stabilimento Fiat campano di Pomigliano D’Arco sono stati chiamati ieri ad esprimersi. Né tantomeno stupisce l’affermazione del ‘SI’ (poco sopra il 60%, comunque al di sotto delle aspettative dei sostenitori dell’accordo) con la quale gli operai hanno risposto alle ‘condizioni’ dettate dal Lingotto e già sottoscritte dai sindacati, con l’eccezione della Fiom, lo scorso 15 giugno. Ricordiamo alcune di queste: 120 ore di straordinario obbligatorio, contro le 40 attuali; riduzione della pausa a 30 minuti, contro i 40 di oggi, monetizzata con una miseria: 30 Euro lordi al mese; il divieto di sciopero nelle ore di straordinario; sanzioni per chi non rispetta gli impegni. Obiettivo: portare la produzione dalle attuali 35.000 auto a 280.000 l’anno, mantenendo il livello di occupazione attuale. 
Vere e proprie ‘condizioni’ che l’amministratore delegato Sergio Marchionne ha di fatto imposto ai lavoratori e ai loro rappresentanti. Senza nessuno spazio lasciato alla discussione. Il mancato accoglimento infatti, avrebbe determinato in sostanza la chiusura dello stabilimento, con circa 5.000 operai senza più un lavoro, senza considerare l’indotto; in una realtà dove l’indice di disoccupazione è tra i più alti d’Italia. Dietro i numeri ci sono uomini e donne con famiglie, figli, mutui da pagare… Chi tra loro può permettersi di rinunciare a uno stipendio?
La verità è che i dipendenti non hanno avuto scelta. Il dilemma non era, approvare l’accordo  oppure rigettarlo e tornare al tavolo delle trattative. Unica alternativa al Si, la disoccupazione Tout court. Marchionne l’ha detto chiaramente, o così o Pomigliano fa la fine di Termini Imerese.    
Più preoccupante tuttavia, è che quanto approvato ieri rappresenta un precedente per cui nulla sarà più come prima. Quelle di Pomigliano sono regole che vanno ad incidere, cambiandole drammaticamente, su anni di lotte e conquiste sindacali, sui diritti acquisiti e, come da più parti segnalato, sono anticostituzionali. Regole che non tarderanno a diffondersi ad altre realtà produttive e ad incidere in maniera definitiva sul sistema economico e industriale del paese nel suo complesso.   
In ballo c’è la libertà. Non è libero chi non ha alternative. Questo ha determinato la scelta di ieri. E le nuove condizioni la limiteranno ulteriormente. Un aspetto che non sembra preoccupare troppo il nostro mondo politico, con poche eccezioni d’accordo sulle proposte di Marchionne. Così come la quasi totalità dei mezzi di comunicazione, impegnati a fare da megafono alle ragioni del Lingotto, a dire quanto sia magnanima l’azienda torinese ad investire 700 milioni di euro per portare la produzione della Panda dalla Polonia a Pomigliano. C‘è da chiedersi perché, invece, per Termini Imerese sia accaduto l’esatto contrario, e perché nessuno faccia più domande sugli innumerevoli aiuti che lo Stato ha elargito alla Fiat nel corso degli anni.    
Nessuno si illuda, la questione non riguarda solo lo stabilimento campano o in generale i dipendenti Fiat. Interessa tutti. Ed è solo l’ultimo assalto, in ordine di tempo, alla già malandata diligenza dei diritti. Una tendenza sempre più evidente, favorita da un impoverimento culturale e sociale generale e da un impressionante calo di consapevolezza. Che dire altrimenti del tentativo di imbavagliare i giornalisti con il Ddl Alfano sulle intercettazioni? Dei tagli della finanziaria alla ricerca, al cinema, al teatro, alla musica e di quanto siano tutto sommato flebili le voci contro?   

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