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Processo Eternit: lo stabilimento italiano dipendeva interamente dalla casa madre svizzero-belga
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di Simona Silvestri

Processo Eternit: lo stabilimento italiano dipendeva interamente dalla casa madre svizzero-belga

Gli ingranaggi, ammesso che si fossero mai fermati, si sono rimessi in moto. Dopo la lunga pausa estiva, lunedì 20 settembre è ripartito, a Torino, il processo alla Eternit, la multinazionale svizzero-belga accusata di aver provocato la morte di centinaia di operai a causa dell’amianto. Dopo le deposizioni dei testimoni dell’accusa e delle parti civili, è stata la volta dei consulenti tecnici della procura: il primo a essere sentito è stato Paolo Rivella, commercialista torinese, chiamato da Guariniello a deporre sugli effettivi rapporti occorsi tra Eternit Italia e i vertici della multinazionale, Stephan Schmidheiny e il barone De Cartier de Marchienne. Obiettivo: comprendere quali siano state le oggettive responsabilità dei due imputati, accusati di omicidio colposo e disastro ambientale.
Di certo nel corso della deposizione non sono mancate le sorprese.
Secondo le carte esaminate da Rivella, in un lungo lavoro durato ben tre anni, sarebbe evidente la totale dipendenza di Eternit Italia dalla casa madre svizzero-belga. A dimostrarlo un verbale di un incontro tenutosi nell’ottobre del 1972, cui parteciparono il manager svizzero Max Graf, a lungo braccio operativo degli Schmidheiny, e Karel Vinck, amministratore del ramo belga. Oggetto della riunione: stabilire le direttive da fare adottare al consiglio di amministrazione di Eternit Italia.
Tra queste, “mettere sotto sorveglianza il gruppo italiano” soprattutto per quello che riguardava la contestazione sindacale all’interno degli stabilimenti italiani, e in particolare in quello di Bagnoli; e “stabilire contatti a più alto livello con i nostri sindacati, politica, quest’ultima, perseguita in seguito personalmente da Stephan Schmidheiny” ribadisce Rivella.
Dalle centinaia di lettere e atti esaminati dal perito emerge anche il ruolo primario giocato da Schmidheiny il quale, pur non entrando direttamente nel consiglio d’amministrazione del gruppo italiano, seguì in prima persona le vicende nazionali dell’Eternit. A preoccuparlo sarebbero stati soprattutto i rischi derivanti dalla manipolazione dell’amianto sulla salute degli operai, per il danno d’immagine che avrebbero potuto provocare alla multinazionale. Forse anche per questo, sempre nel corso della riunione del 1972, fu nominato un nuovo direttore marketing per l'Italia e autorizzato il programma Auls 76, contenente istruzioni per i dirigenti nazionali in caso di contestazioni di comitati di cittadini  o di interferenze da parte di giornalisti e avvocati.
L’udienza di lunedì segna un passo importante nel corso del processo: dalle carte di Rivella, infatti, sono evidenti i rapporti  tra la multinazionale svizzera, e soprattutto il ruolo giocato da Schmidheiny nei confronti del distaccamento italiano, da lui sempre definito nient’altro che una semplice filiale.
Secche e decise le critiche della difesa, che ha puntato ancora una volta sul problema delle traduzioni, rispolverando uno dei cavalli di battaglia sul quale si è finora appoggiata la sua strategia. Secondo gli avvocati dei due imputati, infatti, la perizia sarebbe stata viziata da evidenti imprecisioni nella traduzione e nell’interpretazione di parti di testo contenuti negli atti e nelle lettere esaminate da Rivella.
La prossima udienza è prevista per lunedì 27.
L’amianto però non aspetta, e soprattutto non va in vacanza: il 6 luglio a Casale Monferrato si è spenta Luisa Minazzi, 57 anni. Il padre era uno degli operai della Eternit.  In una lettera indirizzata ai casalesi, Luisa aveva ben descritto quale fosse la difficile condizione della sua città: “Quello che stiamo vivendo a Casale è una guerra, volano le bombe e non si sa chi possano colpire”. 

 

 


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