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La metafora della Thyssenkrupp
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di Santo Della Volpe

La metafora della Thyssenkrupp

“Non potevamo credere ai nostri occhi”:e lo dice alzando gli occhi,appunto, dai suoi fogli e guardando ora la corte d’assise ,ora i difensori. Una breve pausa,ma significativa, in 10 minuti di esposizione che aprono la requisitoria del Procuratore aggiunto Raffaele Guariniello al processo per le 7 vittime del rogo alla Thyssenkrup di Torino, in quella maledetta notte del 6 dicembre 2007. E prosegue  ,il magistrato, spiegando perché erano così stupiti leggendo le carte sequestrate negli uffici dell’azienda a Torino e Terni, le Mail tra i dirigenti, gli organigrammi dei dipendenti depennati a mano man mano che andavano via dalla Thyssen avendo trovato un altro lavoro ,visto che lo stabilimento di Torino doveva chiudere. Increduli i magistrati vedendo che i dirigenti sapevano tutto: conoscevano i pericoli che si correvano in quell’azienda, avevano visto che l’assicurazione  aveva alzato la franchigia al limite dell’assicurabile, avevano un piano per mettere in sicurezza le linee di produzione, soprattutto quella linea 5, ma rimandavano, rimandavano sempre. E non fecero niente, sapendo e dicendo perché, esplicitamente:perché avevano deciso di chiudere lo stabilimento torinese e quindi non investivano per la sicurezza, soprattutto antincendio, perché erano soldi che avrebbero investito quando la linea 5 fosse andata a Terni. Ma intanto gli operai venivano chiamati a lavorare: intanto cera quella commessa di laminati di acciaio speciale che non si poteva perdere e che né a Terni,né in Germania poteva essere soddisfatta. Ed allora, la direzione ,l’amministratore delegato della Thyssenkrupp, Harald Espenhahn corse il rischio, per risparmiare soldi e fare ugualmente il lavoro: ben sapendo che la squadra manutenzione non c’era più, che l’antincendio era stata affidata ad un capo che non sapeva che fare perché non aveva fatto il corso,era di un altro reparto. Sapeva che la carta per terra non veniva tolta, là,sotto quella linea 5, sapeva che per terra c’era olio dappertutto, infiammabile anche con un cerino,mentre lì passavano invece ad altissima velocità laminati di acciaio che facevano scintille dappertutto….
Sapevano e conoscevano anche gli altri dirigenti che scrivevano e dicevano: bisogna fare questi lavori, non abbiamo il certificato antincendio, ma poi si rimandava, si rimandava….Tanto a fine anno (il 2007) tutto sarebbe finito a Terni. Ma il rogo, i morti sono arrivati prima: “ Non è stata emotiva la scelta di contestare l’omicidio con dolo eventuale (un modo giuridico per dire omicidio volontario n.d.r.). Né abbiamo deciso per dare una risposta alle richieste di giustizia delle famiglie ed anche di autorevoli amministratori pubblici” continua il PM Raffaele Guariniello; “Sette operai sono morti, sette famiglie hanno avuto ferite non rimarginabili: ma tutto ciò non ha influito sul nostro orientamento. Noi avevamo  iscritto nel registro degli indagati i responsabili della Thyssenkrupp per omicidio colposo, all’inizio delle indagini, quel giorno stesso di tre anni” rivela ancora il magistrato inquirente;”ma sono state le indagini ad imporci la contestazione del dolo, in particolare gli esiti delle perquisizioni, negli archivi cartacei ed elettronici, nei computer. Quei documenti ci hanno convinto che il vertice della Thyssenkrupp aveva accettato il rischio di incendi, anche mortali, pur di rinviare gli interventi sulla sicurezza sino al trasferimento delle linee di produzione da Torino a Terni, anche per risparmiare 30 milioni di Euro di costo del lavoro con la riduzione degli organici”.
Il silenzio è totale nell’aula della 2° Corte d’assise di Torino: la giuria popolare composta da un piccolo imprenditore,una panettiera e da impiegati, la presidente ed il giudice a latere (anche lei donna), ascoltano senza battere un ciglio; i parenti delle vittime, con il loro dolore racchiuso nelle fotografie dei figli, fratelli o cugini stampato sulle magliette che indossano,o appoggiate sui banchi dell’aula del processo, respirano piano, quasi per non far rumore, per non perdersi una parola di quello che i magistrati  della Procura di Torino, stanno dicendo. Sono passati tre anni da quel rogo, più di 8 mesi dall’inizio del processo (la prima udienza era del 15 gennaio scorso), ma la tensione è ancora molto alta.  L’associazione delle famiglie delle vittime aveva lanciato un appello per questa requisitoria, diretta alla città di Torino,ma soprattutto agli organi di informazione: non lasciateci soli in questo momento, non lasciamo soli i magistrati mentre tirano le fila del loro lavoro in questa Corte d’Assise. Hanno risposto un po’ di giornalisti , quelli che non perdono la voglia di informare anche quando non ci sono le notizie eclatanti, due Reti TV della RAI (TGR e TG3), pochi altri. Ma l’aula non è sola: quel silenzio pesa e si moltiplica, inchioda le penne sui taccuini, anche degli avvocati, quando Raffaele Guariniello continua dicendo:”Da quel continuo rinvio e da quel risparmio di 30 milioni di Euro, è derivato l’abbandono dello stabilimento torinese e degli operai a sé stessi, soprattutto negli ultimi mesi”. Durissimo il giudizio, durissima l’accusa,quando scandisce le parole con le labbra attaccate al microfono:”Non è un caso che 7 lavoratori siano morti lì, non potevano che morire lì,in una fabbrica che , ad esempio, era ritenuta a rischio di incidenti rilevanti e non aveva neanche il certificato di prevenzione incendi”.
Non c’è pausa: quando il dottor Guariniello finisce il suo breve “incipit” processuale, si siede, mentre al suo fianco si alza la sua collega PM Laura Longo: nel silenzio che è sempre pesante come un macigno, incomincia a descrivere  cosa c’era in quella mole di documenti sequestrate, quella  che ha fatto sgranare gli occhi agli inquirenti; non senza dire subito,anche lei, come la pensa, prendendo a prestito Gabriel Garcia Marquez:”Questa è la cronaca di 7 morti annunciate” dice subito, mentre la stessa frase appare sulla prima diapositiva proiettata nell’aula della corte d’assise,la prima di tante che nelle 3 ore fitte di illustrazione di documenti, posta, citazioni dibattimentali  e testimonianze, lega un lungo racconto di parole con pochi aggettivi e molti sostantivi: ne emerge il racconto di cosa era quello stabilimento della Thyssenkrupp così come emerso nelle 68 udienze del processo:”I lavoratori dai maggiori profili professionali se ne erano andati dopo l’annuncio della chiusura, a cominciare dai capiturno della manutenzione. Le riparazioni ridotte a rattoppi: 10 tonnellate di olio utilizzate ogni mese per i rabbocchi degli impianti oleodinamici a circuito chiuso, dimostrano quanto fossero gravi le perdite di olio dagli impianti: E’ stata una delle cause dell’incendio, insieme all’accumulo della carta sulle linee, a cominciare dalla ‘5’, quella del grave incidente”.  E poi ecco snocciolare ed illustrate con le diapositive,le lettere e comunicazioni interne tra dirigenti, sino all’ultima di Cosimo Cafueri,responsabile della sicurezza ed imputato, che il 5 dicembre del 2007, due turni prima del tragico rogo, dava notizia della “nomina di Rocco Marzo a responsabile dell’emergenza antincendio per tutto lo stabilimento nei suoi turni di lavoro senza che avesse mai avuto alcuna formazione specifica. Erano andati via  tutti i più esperti e quella notte Marzo fu avvolto dal fuoco con 6 compagni di lavoro nel tentativo di spegnere le fiamme”. 
Il gelo continua ad avvolgere il racconto: solo una pausa alle 12,30,prima di proseguire un racconto che durerà per altre tre o quattro udienze. E nel corridoio la madre di uno degli opeai morti quella notte, Rosetta De Masi, si lascia andare all’ennesimo sfogo: “tutto vero, mio figlio mi raccontava di quanti rischi si correvano là dentro, mi diceva che spesso erano salvi per miracolo. Ed io mi sento colpevole,sì colpevole, di non averlo tolto da lì prima che  morisse bruciato in quella fabbrica maledetta”.
E torna il silenzio intorno alla Thyssenkrupp, metafora italiana , dei suoi drammi e delle sue ricerche di giustizia.

 


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