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Don Pino De Masi: "Occorre combattere 'l'antimafia del giorno prima'"
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di Giulia Fresca

Don Pino De Masi: "Occorre combattere 'l'antimafia del giorno prima'"

«La politica nazionale ha delegato alla ‘ndrangheta la gestione economica del territorio per avere in cambio un appoggio elettorale in bianco che è servito poi a determinare la politica nazionale. E tutto questo si è consolidato nel tempo attraverso un’accettazione tacita, mai messa in discussione di questa convivenza. Ogni giorno pezzi di economia del Paese, passano di mano e vengono nelle mani di organizzazioni mafiose. Tutto questo poi si traduce in potere politico. La lotta contro le mafie deve chiamarci tutti in causa, così come si sentì chiamata in causa la parte sana del Paese nella lotta contro le dittature, anch’esse ladre di libertà. E per questo la liberazione della libertà è un percorso corale, una costruzione che ha tanti volti, tante passioni, tante competenze, in un impegno che richiede costanza e affiatamento». Parole di don Pino Demasi, Vicario generale della Diocesi di Oppido Mamertina-Palmi e responsabile regionale di Libera, che ci ha concesso questa intervista esclusiva che certamente saprà far riflettere e discutere.

Don Pino, una domanda a bruciapelo: cos’è la ‘ndrangheta?
Dire oggi ‘ndrangheta credo significhi pensare ad una vera e propria holding internazionale del crimine. Duisburg ci ricorda non solo che la ‘ndrangheta è riuscita a portare una faida fuori dal proprio territorio e persino fuori dalle frontiere nazionali, ma ci ricorda soprattutto che è riuscita a portare fuori dei confini nazionali, miliardi di lire da ripulire, non solo e non tanto nella ristorazione, ma anche attraverso investimenti immobiliari ed operazioni finanziarie in una delle più importanti borse del mondo, quale quella di Francoforte. Non c’è dubbio, dunque, che la ‘ndrangheta sia oggi la mafia più potente del mondo, proprio perché è riuscita ad assumere un ruolo centrale nelle dinamiche criminali nazionali ed internazionali. In questo è stata favorita dalla sua organizzazione a base familiare, che le ha consentito, almeno sino a questo momento, di essere sostanzialmente impermeabile al fenomeno del pentitismo (solo in questi giorni si incominciano a vedere i primi cedimenti) e di presentarsi come la mafia più affidabile agli occhi delle altre organizzazioni criminali ed agli occhi dei grandi cartelli internazionali della droga.

È possibile parlare di ‘ndrangheta senza respirare e vivere la Calabria?
La forza della ‘ndrangheta è dovuta anche alla sua capacità di costruire un forte controllo sociale e violento del proprio territorio e di assurgere a “perverso garante della dignità” di giovani e di intere classi popolari, grazie anche ad un humus ed una sottocultura presente nel calabrese. Pensiamo innanzitutto al concetto di appartenenza. L'appartenenza conta più della competenza. L’appartenenza va poi a braccetto con il clientelismo. In Calabria tutto diventa clientela. Ogni occasione è buona per dire grazie a qualcuno, sia che uno abbia o non abbia titolarità ad ottenere ciò che chiede. Ovviamente questo viene accentuato dalla latitanza di regole controllate ed applicate, nonché dalla mancanza di un'etica della pubblica amministrazione. In Calabria in modo particolare c'è poi una malattia che si chiama indifferenza, che è frutto di un male atavico della nostra Regione, che è l'individualismo. È la malattia delle persone ripiegate su se stesse, che misurano il bene e l'utile solo con il metro del proprio vantaggio. Fuori da quel recinto mentale e culturale, il vuoto, il nulla. È questa la grande malattia della Calabria, che diventa poi la grande complice della ‘ndrangheta. La forza della ‘ndrangheta non dipende solo dai suoi affiliati e dai loro fiancheggiatori. Dipende anche dai tanti che di fronte alla violenza del crimine organizzato voltano la testa dall'altra parte e dicono “non mi riguarda”.O la forza della ‘ndrangheta sta in quelle persone che, mutuando un termine coniato da Primo Levi, costituiscono al cosiddetta “ zona grigia”. Si tratta di persone non direttamente affiliate alle mafie ma che di fatto le favoriscono in qualche modo. E non sempre si tratta di gente comune, che ancora chiede per favore ciò che tocca loro per diritto, ma penso ai tanti professionisti, a tanti commercianti, a tanti politici. La politica in modo particolare è l’anello più debole di questa Regione. La modalità di fare politica è stata assimilata a quella dei “clan”. Non è, infatti, l'omogeneità ideologica a definire le appartenenze, bensì le alleanze, le spartizioni, il collateralismo, che si riflettono negativamente poi nella gestione e nella dirigenza dei più importanti enti pubblici. Spesso la carriera politica è subordinata alla capacità di creare “vincoli e dipendenze” in ogni ambito e settore e non certamente alle competenze di buon governo. In questa situazione  diventa normale il fatto che la ‘ndrangheta ha sempre rappresentato il convitato di pietra di tutte le stagioni politiche e condizionato il rapporto tra le classi dirigenti calabresi con quelle nazionali, per contrattare la gestione delle risorse pubbliche e del consenso politico ed elettorale. La politica nazionale ha delegato alla ‘ndrangheta la gestione economica del territorio per avere in cambio un appoggio elettorale in bianco che è servito poi a determinare la politica nazionale. E tutto questo si è consolidato nel tempo attraverso un’accettazione tacita, mai messa in discussione di questa convivenza. Ogni giorno pezzi di economia del Paese, passano di mano e vengono nelle mani di organizzazioni mafiose. Tutto questo poi si traduce in potere politico. Questo vuol dire che l’economia italiana è terreno di conquista di patrimoni la cui origine è oscura e incerta. Ma il potere economico si traduce in potere politico, si traduce in condizionamento. Il sistema bancario mondiale si regge su questo flusso continuo di denaro di origine misteriosa. C’è tutto un sistema che si autogiustifica e si autolegittima continuamente. La sanità in Calabria è la metafora di questo scambio e di questo degrado: dall'occupazione politica degli ospedali e delle ASL agli appalti e al controllo della spesa farmaceutica, fino al disprezzo del valore della vita e di quella umanità dolente mortificata ed offesa nel proprio diritto alla salute da un sistema di potere e di scambio politico – affaristico – criminale. Quando si parla allora del controllo del territorio, o di governo del territorio, bisogna capire che non si parla di un territorio fisico, vuol dire controllo del territorio amministrativo, sindaci, amministratori… economico, imprenditori, banche… politico, esponenti politici provenienti dal territorio… è una cosa molto più complessa di quella che noi siamo abituati a considerare, non è la zona geografica. È un territorio istituzionale, nel quale c’è anche la presenza di istituzioni di repressione, polizia, Magistratura. Comprendiamo allora l'esternazione dell’ex Prefetto De Sena, il quale ha affermato che «non vi è più un problema di infiltrazioni della criminalità organizzata, ma di vera e propria sostituzione».

Lei non ha mai sottaciuto gli errori o le omissioni della Chiesa, ma in che modo davvero ci si deve battere il petto? Abbiamo forse bisogno di più preti di frontiera?
La lotta alle mafie non è una questione delegata agli “eroi”, ma è una questione che riguarda tutti i cittadini, le persone comuni, gli uomini e le donne che vivono nei territori, i giovani che vanno a scuola e quelli che lavorano o sono in cerca di un’occupazione. Come è accaduto nella società civile, anche la Chiesa che lotta le mafie, sino ad un recente passato, era composta da poche persone, preti e laici, capaci di denunciare il malaffare, ricevendo spesso in cambio minacce e intimidazioni. Grazie a Dio questa fase è finita. Oggi è la Chiesa, in tutte le sue dimensioni, che ha capito che Vangelo e mafie non possono andare insieme. Benedetto XVI proprio a Palermo qualche giorno fa ha evidenziato con la massima chiarezza come “la mafia è una strada di morte” incompatibile con Il Vangelo ed è per questo che non è possibile alcuna conciliazione tra questo grave fenomeno che offende Dio e gli uomini, con il cristianesimo. I comportamenti mafiosi sono, dunque, antievangelici ed è assolutamente inutile oltre che offensivo, sfoderare Bibbia e santini, invocazioni varie o pretendere di organizzare le feste patronali o portare le statue dei Santi in processione, se poi si sceglie il Male nella quotidianità della vita. Per questo motivo, dopo la fase della denuncia, la Chiesa è passata alla fase dell’impegno nel quotidiano. Non si tratta solo lottare contro i boss e le cosche, o condannare solo la mafia dei cosiddetti colletti bianchi. Si tratta di combattere quella moderna e silenziosa mafia di tutti i giorni. E’ quella che io chiamo “antimafia del giorno prima.” E allora non c’è tanto bisogno di preti di frontiera, ma di preti e laici con la voglia e la passione di mettersi in gioco, di sporcarsi le mani. E credo che oggi c’è, anche in questa Regione, la testimonianza di una Chiesa sempre più impegnata, radicata nel tempo e nella storia delle persone, non solo ferma nella denuncia ma soprattutto determinata nel costruire speranza, in modo particolare a fianco ai giovani. Da Polistena a Vibo Valentia ad Isola Capo Rizzuto, da Rosarno a Gioia Tauro all’alto Tirreno Cosentino, da Reggio Calabria a Locri a Lamezia e alle pendici del Pollino, c’è una Chiesa che si spende nell’educazione delle coscienze e quindi nel costruire una cultura alternativa a quella mafiosa, ma anche nell’opporre ai segni del potere, il potere dei segni. Pensiamo a tutte quelle iniziative a fianco di chi vive situazioni di disagio e sofferenza, con la voglia di ascoltare, capire, condividere la fatica di tanta gente e di ricercare insieme soluzioni possibili. Pensiamo a tutto il lavoro nei quartieri degradati, al cosiddetto lavoro di strada: centri di aggregazione giovanile, estate ragazzi, sostegno scolastico. Pensiamo alle tante strutture, dove i ragazzi diversamente abili sono protagonisti. Pensiamo alle fondazioni antiusura, alle botteghe del commercio equo e solidale, alle scuole di formazione all'impegno sociale e politico. Pensiamo alle cooperative e alle imprese consolidatesi in alcuni territori. Pensiamo alla cooperativa Valle del Marro e a tutto ciò di positivo attorno ad essa è nato. Pensiamo all’utilizzo da parte della Chiesa di immobili confiscati alle mafie. È di questa Chiesa impegnata in trincea, nel nome del Vangelo di liberazione, che oggi noi abbiamo bisogno.

Don Pino è davvero possibile sostenere e diffondere l’economia della legalità come Lei fa con la cooperativa sociale "Valle del Marro-Libera Terra"?
Per combattere la 'ndrangheta non si devono risparmiare energie, cercando in ogni modo di educare i giovani alla legalità e all'importanza di lottare per i propri diritti. La cooperativa "Valle del Marro - Libera Terra" è nata in questa logica. Alcuni dei soci fondatori sono ragazzi cresciuti con me, giovani che hanno deciso di intraprendere un percorso diverso, di rottura con il pensiero dominante. L'idea di costituire questa cooperativa nasce dal loro desiderio di riscatto sociale e di libertà, la libertà di scegliere se rimanere o meno nella propria terra. Al centro di questo percorso, che si incrocia con la lotta alla criminalità ed il rispetto dei diritti degli esseri umani, è il lavoro. Sono molti i giovani della Piana che chiedono di lavorare con la cooperativa. Il segno del potere, la ricchezza mafiosa, è stato abbattuto e al suo posto sorge il potere dei segni, la ricchezza convertita in benessere per tutti, attraverso il lavoro, attraverso la possibilità di un’alternativa al sistema mafioso. Il “segno” che stiamo cercando di dare è che i beni confiscati, da beni esclusivi, possono diventare beni condivisi, restituiti all'uso della collettività, per creare lavoro e sviluppo sano e per alimentare la speranza. Confiscare un bene mafioso significa restituire alla collettività qualcosa che le era stato sottratto. Riutilizzarlo secondo i bisogni del territorio vuol dire promuovere sviluppo e lavoro. Il messaggio che sta arrivando ai giovani e a tutta la comunità è antitetico a quello che la mafia diffonde: la legalità conviene. Più iniziative di riutilizzo sociale dei beni confiscati nascono sul territorio, più si moltiplica il consenso verso la legalità considerata come unica condizione di sviluppo autentico, di promozione umana, di integrazione sociale. E meglio si distribuisce la fiducia. È questa l’esperienza che stiamo vivendo con la cooperativa Valle del Marro.
La nostra società, allora, deve prendere sempre più coscienza che il capitale sociale è il fattore di coesione di ogni comunità, la sua identità più profonda, e che il privato sociale ed in particolare la cooperazione, hanno un ruolo centrale per la loro capacità di farlo crescere, distruggendo quell’altro capitale sociale dell’illegalità che è fatto non solo di collusioni a livello politico, economico e finanziario, ma anche di indifferenza, rassegnazione e omertà.

Tempo fa è stato lanciato l’appello ad un'alleanza per la Locride e la Calabria contro la 'ndrangheta e le massonerie deviate, per la democrazia e il bene comune. Don Pino quanto “bianco” delle fedine penali c’è, nella ‘ndrangheta oggi?
I dati emersi nel corso di vari procedimenti penali, il cui numero non è mai sufficiente, ci stanno rappresentando la complessità e le diverse forme dei rapporti tra strutture criminali, poteri occulti e istituzioni, e lasciano immaginare una profonda penetrazione di queste strutture nella società civile calabrese e nelle sue varie articolazioni. Il terreno fondamentale sul quale si costituiscono e si rafforzano i rapporti della 'ndrangheta con esponenti dei pubblici poteri e delle professioni private è certamente anche rappresentato dalle logge della massoneria deviata. Nei prossimi anni dovremo certamente parlare di una quinta mafia, rappresentata dall'intreccio tra colletti bianchi, segmenti della politica, cosche: una mafia che non fa rumore, ma che fa affari e che rischia di diventare il polo di riferimento di segmenti della società civile che hanno perduto la fiducia nelle Istituzioni. Inchieste giudiziarie hanno portato all'arresto di imprenditori, liberi professionisti e insospettabili colletti bianchi alleati con le mafie. Confido nella graduale emersione della trama delle relazioni tra mafie e colletti bianchi, malgrado lo stop di alcune inchieste. Tutto ciò ci deve interrogare. La ‘ndrangheta controlla il territorio attraverso un’organizzazione scientifica, mentre dall’altra parte esiste un’organizzazione antimafia poco organizzata scientificamente e per di più divisa al suo interno per motivi politici. Dovremmo allora lavorare di più e meglio costruendo una vera rete di impegno per il bene comune e contro le mafie soprattutto contro quei tanti “mafiosi”dalle fedine penali pulite. Perché di questo dobbiamo essere consapevoli: la nostra libertà si fonda su quella degli altri, la libertà dell’“io” sta dentro la libertà del “noi”. Se gli altri non sono liberi lo siamo meno anche noi e la nostra libertà assumerà significato solo diventando impegno per la liberazione di tutti, solo sentendo questa responsabilità.
Per questo la lotta contro le mafie deve chiamarci tutti in causa, così come si sentì chiamata in causa la parte sana del Paese nella lotta contro le dittature, anch’esse ladre di libertà. E per questo la liberazione della libertà è un percorso corale, una costruzione che ha tanti volti, tante passioni, tante competenze, in un impegno che richiede costanza e affiatamento.

Rosarno, immigrati, lavoro nero, stato di bisogno. Quando potremo essere davvero liberi?
Rosarno con i suoi migranti e con la sua vergognosa caccia all’uomo di colore è stata una piccola scatola contenuta in una scatola più grande che è la condizione di servitù e di annullamento di ogni dignità umana su cui si regge la produzione di ricchezza di gran parte del capitalismo. Rosarno segna la degenerazione del sistema di mercato in cui l’illegalità si sostituisce alle regole della società civile, agli ordinamenti giuridici sulle tematiche del lavoro e nelle quali le prassi distorsive di mercato sfuggono di mano all’organizzazione pianificata dello sviluppo economico locale e vengono totalmente dominate da azioni illecite. Rosarno ci dice chiaramente che non siamo un popolo libero. “Liberi di esserci e di vivere” deve essere invece il nostro obiettivo. E allora possiamo oggi ripartire proprio da Rosarno con la voglia di lavorare tutti e meglio per la difesa della persona umana e per la tutela dei suoi diritti. Vogliamo e possiamo ripartire da Rosarno con la passione per vincere una sfida in difesa della democrazia del nostro Paese e di tutto il mondo occidentale.
Siamo ormai infatti tutti più che convinti che i pregiudizi e le chiusure sono di ostacolo alla convivenza e che integrazione e pari opportunità debbano andare necessariamente di pari passo, sia pure in un intreccio di diritti e di doveri.
Ripartiamo da Rosarno con l’impegno di coniugare insieme accoglienza e legalità in vista di una società coesa capace di ospitare e costruire quella “ convivialità delle differenze”, così cara a don Tonino Bello. Una società nella quale ciascuna identità esprima la propria specificità e collabori al bene comune, nel rigoroso rispetto delle leggi che regolano la civile convivenza (tema, questo, sul quale non sono ammissibili deroghe da nessuna parte) ed in un potenziale reciproco arricchimento. Una società, appunto, all’insegna dell’”identità arricchita”, per usare una formula che fa fatica a farsi largo nel dibattito ma che offre un’immagine eloquente sulla quale tutti dobbiamo lavorare.
Ripartiamo da Rosarno, terra di contraddizioni, terra di migranti e di silenzi per costruire il nuovo di questo Paese.

Don Pino, in che modo il 2011 potrà essere diverso dall’anno che ci sta lasciando, considerando anche il clima politico che si respira nella regione ed in Italia? Quale insegnamento dovremo conservare per i nostri giovani?
Io credo che con l’impegno di tutti, soprattutto dei giovani, sia possibile costruire un futuro di speranza per la nostra Regione. È possibile far nascere, pur tra tante resistenze, una Calabria nuova. La speranza, però, sta nell’esserci. Nell’assumerci tutti e di più le nostre responsabilità. Nella serena tenacia dell’unire le forze per fare di più e meglio. La speranza non è attesa passiva di un futuro migliore, ma è presente che chiede di essere orientato e accompagnato con scelte coraggiose, gesti concreti, parole credibili, con percorsi di libertà, cittadinanza, informazione, legalità, giustizia, solidarietà. Percorsi in costruzione capaci di rendere sempre più evidente a tutti che la lotta alle mafie deve essere il filo conduttore della nostra storia personale e comunitaria. Proviamo tutti , allora, soprattutto i giovani, a “scrivere” la storia personale e comunitaria come cammino e avventura della libertà.


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