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Ex ambasciata somala, oggi come sei anni fa
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di Laura Boldrini*

Ex ambasciata somala, oggi come sei anni fa

Nel novembre 2004 scrivevo: “Il quartiere è uno dei più eleganti di Roma e la strada silenziosa è piena di verde. La palazzina è protetta da una siepe e da due grandi cancelli in ferro battuto. Fuori un’insegna in ottone con scritto “Ambasciata della Repubblica Democratica Somala” e accanto un vecchio campanello con telecamera, da tempo fuori uso (..) Il giardino dell’ambasciata è diventato un garage di macchine da rottamare, un tempo in dotazione al personale diplomatico e oggi usate come riparo notturno per chi non ha di meglio. Sotto il porticato retrostante sono schierati reti, materassi e coperte sudice che servono da giaciglio per una decina di persone.

Nel garage, che ora funge da cucina e dormitorio insieme, altri letti, alternati a bombole del gas, bagagli e immondizie. Così come nello scantinato totalmente al buio e nei locali del piano terra della palazzina si trovano materassi sparsi nei vari angoli. L’elettricità manca ovunque, c’è solo un rubinetto con acqua fredda e un bagno per circa 70 uomini (..)

Molti somali che si trovano accampati nell’ex ambasciata nel gergo burocratese vengono chiamati “casi Dublino”. Si tratta di persone che sono arrivate in Italia e qui hanno chiesto asilo ma che, non potendo sopravvivere senza alcuna assistenza e senza un lavoro, si sono successivamente spostate in altri paesi dell’Unione Europea dove hanno poi avanzato una nuova domanda, in contrasto con il Regolamento di Dublino il quale stabilisce che nei paesi dell’Ue si può richiedere asilo una sola volta e che è il primo paese europeo in cui si entra a dover vagliare la domanda (…)

Già dal 2000 alcuni avevano usufruito dello spazio dell’ex ambasciata per dormire qualche notte, in transito verso altri paesi. Dall’anno scorso – 2003 – invece la palazzina di via dei Villini è diventata “casa Dublino”, dimora stabile per chi, da altri paesi europei con sistemi d’asilo strutturati ed efficienti, viene inesorabilmente rispedito in Italia poiché qui ha fatto la prima domanda d’asilo.”

Per descrivere l’attuale situazione dell’ex ambasciata somala potrei attenermi a quanto scritto nel novembre del 2004 senza alterare in alcun modo la realtà. Vale a dire che sei anni dopo è tutto immutato: stesso degrado, stesso stato d’abbandono, stesso senso di sconfitta di tanti giovani fuggiti da un paese in preda all’anarchia e alla violenza ai quali lo Stato italiano ha riconosciuto una forma di protezione, costretti a sopravvivere in un luogo fetido, senza prospettive per il futuro. Molti di loro che si trovano oggi a via dei Villini, come gli altri che li hanno preceduti, hanno tentato di rifarsi una vita in altri paesi europei dove in alcuni casi hanno iniziato un percorso di integrazione che è stato però interrotto dall’applicazione della normativa europea. Quindi sono stati rinviati in Italia.

Questi giovani, si sentono in trappola: non possono ritornare in Somalia, non possono stabilirsi in un altro paese europeo e a Roma l’unico luogo in cui trovano un riparo è l’ex ambasciata somala.  Che senso ha per queste persone aver ottenuto la protezione internazionale in Italia se poi non viene messo in atto un percorso di integrazione che restituisca loro la dignità di rifugiati?

Non si tratta di assistenzialismo ma di un avviamento all’autonomia che passa per l’insegnamento della lingua e l’inserimento lavorativo. Un investimento non certo a fondo perduto poiché consente ai rifugiati di diventare produttivi, di dare il loro contributo nel paese d’asilo, di  guadagnarsi da vivere onestamente e di pagare le tasse.

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