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Articolo 21 - INFORMAZIONE
Il governo della paura
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di Valter Vecellio

Il governo della paura

Basta con i titoli nei giornali o dei notiziari televisivi che utilizzano un richiamo alla nazionalità per connotare chi ha commesso un reato. Basta insomma con titoli del tipo: “Marocchino stupra una ragazza” o “Romeno deruba anziana pensionata”. Da “FFWebMagazine”, il giornale telematico della fondazione “Fare Futuro” viene una lezione di civiltà e di deontologia professionale che va raccolta e sostenuta. “Sarebbe utile”, scrive Filippo Rossi, “un codice etico specifico, una carta dell’ordine dei giornalisti che stabilisca regole sulla necessità o meno di utilizzare connotazioni etniche nel riportare fatti di cronaca nera”.
   Rossi invoca un codice di autoregolamentazione; opportunamente osserva: “Quando a cadere nella rete della giustizia è un italiano in genere ‘si tace’  sulla sua provenienza:  perché non specificare se l’italiano in questione viene dal Nord o dal Sud, se è di Cosenza, di Varese o di Arezzo? Se è cattolico, ateo o protestante? Se è eterosessuale o omosessuale? La rilevanza, ai fini della cronaca, in fin dei conti è la stessa”.
   Ai fini della “cronaca”, effettivamente, l’essere romeno o marocchino, di Varese o di Cosenza, non aggiunge né toglie nulla; a meno che non si voglia sostenere che tutti i romeni, tutti i marocchini, sono in quanto tali e per definizione, dei criminali, ma questa corbelleria neppure il più accanito xenofobo lo può e lo sa sostenere. Né aggiunge, né toglie nulla, il fornire il nome dell’arrestato, basterebbe limitarsi alle iniziali (in fin dei conti, pur se arrestata, quella persona è pur sempre da considerare innocente, fino a quando una sentenza non sancisce la sua colpevolezza); esisteva peraltro un “divieto” a mostrare una persona arrestata in manette; “divieto” peraltro ampiamente violato, e spesso e volentieri con la compiacente complicità di chi quella persona ha arrestato, che la esibisce compiaciuto come un trofeo…
    Non aggiunge né toglie nulla, quell’ossessivo insistere sulla nazionalità di un arrestato quando si tratta di un extracomunitario o di un europeo dell’est, ma contribuisce potentemente alla creazione di un “clima”. Di recente è accaduto un episodio emblematico: in provincia di Messina un romeno stupra un’italiana; a Palermo due italiani fanno violenza a una nigeriana. Una delle due notizie è stata ripresa con evidenza; l’altra completamente ignorata. Decidete voi quale è stata enfatizzata, e quale al contrario, non è stata inserita neppure tra le “brevi”.
   Opportuna, dunque, la domanda che si pone “FFWebMagazine”: “Siamo proprio sicuri che quando si fa informazione su atti di violenza e sopraffazione, indicare, soprattutto nei titoli ‘a effetto’ la nazionalità o l’etnia di chi li ha commessi, sia così fondamentale? Il più delle volte, è evidente, si tratta di particolari assolutamente irrilevanti. Ma quei particolari, quelle informazioni, finiscono per accumularsi nell’inconscio collettivo e poi – più o meno volontariamente – possono essere utilizzate a fini propagandistici o di ‘bassa politica’, o semplicemente come mattoni per costruire nuovi muri di paura, chiusura e diffidenza. E’ più di un rischio: è quasi una certezza”.
   Val la pena di ricordare quanto emerse da una indagine  promossa dalla Fondazione Unipolis, condotta da Demos & pi in collaborazione con l’Osservatorio di Pavia: “L’indagine ha fatto i conti della serva, ha pesato le notizie relative alla criminalità trasmesse tra il 2005 e il primo semestre del 2008 dalle reti RAI /TG1,TG2,TG3) e da quelle Mediaset (Canale 5, Rete 4, Studio Aperto). Hanno badato solo a quante notizie sono state date, non a quanto tempo è stato loro dedicato nell’arco del TG…”. Se ne ricavava che il picco che accomuna tutte le reti in corrispondenza del secondo semestre del 2007, quando,annota l’indagine, il numero dei reati era comunque già in calo…
   In breve, è accaduto quello che il professor Jonathan Simon racconta e analizza nel suo “Il governo della paura”. Simon si domanda come e quando è avvenuto che la nostra quotidianità divenisse preda della paura e che ciascuno di noi iniziasse a percepire la stretta di un controllo sempre più opprimente, quasi fossimo tutti dei potenziali criminali. Parla degli Stati Uniti, e spiega che la percezione della centralità del crimine nella vita sociale americana ha contribuito a ridefinire i poteri del governo, il ruolo della famiglia e della scuola, la posizione dell’individuo nella società: “La guerra alla criminalità…permetteva di ridefinire i programmi politici nei termini di un’efficace prospettiva sicuritaria…”. 
   Gli Stati Uniti hanno “semplicemente” anticipato quello che accade in Italia e in Europa; e soprattutto in questi mesi abbiamo assistito all’uso politico della “paura”. Inascoltati lo si era denunciato da tempo: con i dati raccolti e diffusi dal centro d’ascolto radicale; con le ripetute denunce politiche, le relazioni, i convegni…Abbiamo documentato come le televisioni pubbliche e private “drogavano” l’opinione pubblica con dosi massicce di servizi giornalistici incentrati sull’allarme sociale. Ci voleva la parziale inchiesta Demos: che prende in esame i notiziari televisivi; dunque non prende in considerazione la radio, i programmi di approfondimento politico e di intrattenimento; dunque c’è stato un utilizzo scientifico e deliberato della questione “ordine pubblico”; si è enfatizzato, puntando sulla paura e il timore del diverso, sempre e comunque identificato con il criminale e il perverso. Per mesi siamo stati bombardati dall’emergenza rom, dall’emergenza albanesi, dall’emergenza romeni, dall’emergenza extracomunitari. I notiziari radiotelevisivi infarciti di storie turpi ed efferati delitti non rispondevano solo o tanto a una logica di audience, quanto alla volontà di diffondere un clima. Una “percezione”, come l’ha definita Ignazio La Russa. Su circa cinquemila notiziari di un anno, il tempo dedicato alla cronaca nera dal 10 e passa per cento del 2003, nel 2006 è più che raddoppiato.  
   Manca la volontà, la voglia di “disinnescare un meccanismo ormai consolidato, un circuito vizioso tra i media e il loro pubblico”, osserva “FFWebMagazine”. E’ probabile; ciò non toglie che sia utile, necessario, urgente cercare di farlo, se è vero che “l’importante, in un paese normale, è la giusta pena inflitta da una giustizia che funziona, non la gogna pubblica, non il rogo purificatore a cui, poi, per ironia della sorte, segue non di rado la più completa impunità”.
   E’ una questione importante, ed è importante che a sollevarla sia stata “FFWebMagazine”,  nei termini in cui l’ha fatto.


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