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Articolo 21 - ESTERI
Dietro la morte di Saleem
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di redazione

Dietro la morte di Saleem Perché? Perché Syed Saleem Shahzad, uno dei principali esperti di terrorismo e guerriglia nell’Af-Pak, è stato torturato fino alla morte? Da chi? Chi poteva avere interesse a torturare, fino a uccidere, il capo dell’ufficio pakistano di Asia Times Online per ottenere informazioni? A chi davano fastidio le rivelazioni di Shahzad? Cosa complicavano? Vogliamo provare a ragionare sull’uccisione di un collega in un Paese che Reporters Sans Frontières indica come «difficile» per i giornalisti e pone al 151esimo posto nell’indice del 2010 sulla libertà di stampa, con i media stretti «nella morsa fra i Taliban, che moltiplicano le aggressioni, e le forze di sicurezza, che non hanno rinunciato ai loro metodi di abuso».

Shahzad è stato torturato fino alla morte a meno di un mese dall’uccisione di Osama bin Laden in Pakistan, in un blitz delle forze speciali americane. La “scoperta” della residenza-covo dello sceicco del terrore in un quartiere residenziale di Abbottabad ha creato non poche difficoltà nei sempre tormentati rapporti tra Islamabad e Washington, alleate nella lotta al terrorismo. L’uccisione di bin Laden ha contribuito ad alterare i precari equilibri interni della polveriera pakistana. Shahzad è morto in un momento in cui al-Qa’ida si ridefinisce e in cui il Pakistan deve chiarire i rapporti con al-Qa’ida.

Shahzad è stato torturato a morte pochi giorni prima dell’uccisione, in un raid di un drone statunitense sulle regioni tribali del Pakistan, di Mohammad Ilyas Kashmiri, considerato il comandante operativo di al-Qa’ida, l’uomo che nell’ombra traduceva in fatti le idee di bin Laden, la figura associata agli attacchi di Mumbai del 2008. Per il ministero dell’Interno pakistano ad oggi «c’è il 98% delle possibilità che sia morto».

Nell’ottobre di due anni fa Kashmiri, “veterano” della lotta con l’India per il Kashmir e capo della cosiddetta “Brigata 313” di al-Qa’ida, aveva “invitato” Shahzad nel suo covo per smentire la notizia della sua uccisione in un altro raid del settembre precedente di un drone americano sul Waziristan del Nord. La storia di Kashmiri, ricordava Shahzad nel suo articolo per Asia Times Online del 15 ottobre 2009 con l’intervista al comandante operativo di al-Qa’ida, era iniziata con il Movimento per libertà del Kashmir, era proseguita con Harkat-ul Jihad-i-Islami (che sabato ha confermato l’uccisione di Kashmiri) ed è culminata con la “Brigata 313”.

Shahzad è stato torturato fino alla morte dopo l’imbarazzo creato dai suoi ultimi articoli per Asia Times Online in cui spiegava i legami tra al-Qa’ida e l’Isi, i potenti servizi segreti pakistani, e quelli tra la rete del terrore e la Marina pakistana. «L’Esercito pakistano è stato sempre legato alle forze islamiste. In passato, ha stretto accordi con i Taliban, quando questi ultimi erano al potere in Afghanistan e ha stretto accordi anche con al-Qa’ida, quando i suoi uomini vivevano in Afghanistan all’epoca del regime dei Taliban. Ha stretto accordi con al-Qa’ida anche quando il generale Mahmud (Ahmed), dell’Isi, si è recato a Kandahar dopo l’11 settembre e ha incontrato il governo dei Taliban. E ha garantito a Osama bin Laden che il Pakistan non avrebbe avviato operazioni contro al-Qa’ida – affermava Shahzad nella sua ultima intervista prima di essere ucciso – e al-Qa’ida non avrebbe attaccato il Pakistan. Per questo, sulla base degli stessi accordi, a Osama bin Laden e agli esponenti di al-Qa’ida è stato consentito di arrivare in Pakistan. E l’offensiva è stata scatenata solo nel 2003 quando l’intelligence pakistana ha riferito erroneamente al generale Pervez Musharraf (allora presidente) che al-Qa’ida era dietro all’attacco contro il suo convoglio, sempre nel 2003 (…) E quindi al-Qa’ida ha risposto, contro l’apparato dell’Esercito pakistano e contro Musharraf».

La “Brigata 313” di Kashmiri è stata indicata come il gruppo operativo dietro all’attacco di maggio alla base della Marina pakistana nei pressi di Karachi. «E se la Marina pakistana e Ilyas Kashmiri fossero in combutta e un giornalista l’avesse scoperto? – si chiede Asia Times Online nel suo articolo del 3 giugno scorso – Sappiamo che l’attuale capo dell’Esercito pakistano, Ashfaq Pervez Kayani, è stato in passato capo dell’Isi, l’organizzazione accusata di aver nascosto bin Laden ad Abbottabad».

Shahzad aveva denunciato di aver «ricevuto minacce di morte da vari funzionari dell’Isi in almeno tre occasioni negli ultimi cinque anni», ha scritto l’editore del gruppo pakistano Dawn e presidente della All Pakistan Newspaper Society, Hamed Haroon, in una nota diffusa dopo la morte del giornalista. L’ultima velata minaccia Shahzad l’aveva percepita nelle parole che gli aveva rivolto un alto ufficiale dell’Isi durante un incontro di metà ottobre 2010 al quartier generale dei servizi: di quel colloquio Shahzad aveva raccontato a Haroon in una mail, ma anche a un ricercatore di Human Rights Watch e Asia Times Online. La nota dell’editore di Dawn è arrivata subito dopo l’insolita scelta dei servizi segreti pakistani di respingere pubblicamente ogni sospetto sul loro coinvolgimento nell’uccisione del giornalista. Il 1° giugno, una fonte anonima dell’Isi, tramite l’agenzia di stampa pakistana App, ha sottolineato come non vi fosse «nulla di sinistro» nell’incontro del 17 ottobre scorso tra Shahzad e gli uomini della sezione dei servizi Information Management Wing, che, ha detto, lavora per «stabilire contatti con la comunità dei giornalisti» per «garantire una corretta informazione su questioni di sicurezza nazionale».

A quel colloquio, che sembra essere servito all’Isi per chiedere al giornalista delucidazioni su un suo articolo sul mullah Abdul Ghani Baradar, comandante dei Talebani dell’Afghanistan, sarebbe stato presente Khalid Pervaiz, nominato comandante della base di Mehran dopo l’attacco del 22 maggio, ma prima della morte di Shahzad. Lo scorso ottobre Shahzad aveva provocato almeno imbarazzo tra l’apparato militare pakistano riferendo della liberazione del mullah Baradar, arrestato il febbraio precedente.

Gli Stati Uniti hanno condannato l’uccisione di Shahzad, il Pakistan ha disposto l’apertura di un’inchiesta. Emergerà mai la verità sulla morte di Shahzad? La sua uccisione ci lascia con l’amara considerazione che in quell’angolo di mondo, tra raid con droni e trattative nell’ombra, tra miliardi di dollari di aiuti e pressioni più o meno forti su questo o quell’altro fronte, tra difficili equilibri e alleanze traballanti, non si riesce neanche a tutelare la vita di chi fa inchieste senza guardare in faccia a nessuno.
 

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