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Usa: l’ora di un terzo partito
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di Marilisa Palumbo*

Usa: l’ora di un terzo partito «Per quanti pensano a una “third party rebellion” contro il duopolio politico non riesco a pensare a un momento migliore di questo. Quale prova più evidente del fallimento dei due partiti nel far funzionare un governo diviso di quanto sta accadendo a Washington?». Will Marshall, presidente del Progressive Policy Institute, il think tank centrista che fu più vicino al presidente Clinton, è da un po’ di tempo interessato a opzioni terziste, ben oltre la Terza via dei tempi d’oro.

Dopo un avvicinamento a No Labels, gruppo bipartisan con l’ambizione di diventare il MoveOn dei centristi («me ne sono tirato fuori perché mi sembrava non andassero da nessuna parte»), Marshall si è fatto coinvolgere in Americans Elect, «non esattamente un terzo partito, ma un’iniziativa la cui ambizione è creare e portare a termine un percorso alternativo per la nomination alle presidenziali, che consentirebbe la nomina di un ticket di centro».

La rampa di lancio di una terza forza potrebbe essere insomma lo stallo di Washington, con il Congresso incapace di trovare un accordo sull’innalzamento del debito e il paese sull’orlo della catastrofe-default. «Io non credo – spiega Marshall – che le colpe di questo impasse possano essere assegnate equamente – i repubblicani hanno senz’altro maggiore responsabilità – ma quando il sistema sembra non funzionare la gente si allontana dalla politica e sono entrambi i partiti a soffrirne».

Come si è arrivati a questo punto?

Obama avrebbe voluto davvero trovare un accordo ampio con i repubblicani – il cosiddetto Grand Bargain – che consentisse una grossa riduzione del debito per risolvere in modo quasi permanente il problema e stabilizzare il debito nazionale. È stato Boehner ad abbandonare il tavolo non una, ma due volte perché i repubblicani non vogliono un aumento del gettito fiscale di nessun tipo. Il problema sta tutto nell’arrivo a Washington, dopo le elezioni di midterm del 2010, di una nutrita pattuglia di repubblicani estremamente radicali. Il presidente ha ragione a dire, come ha fatto ieri sera (lunedì per chi legge, ndr), che se si arriverà al default sarà una crisi costruita politicamente e sarà la conseguenza della rigidità ideologica dei repubblicani. Questi 87 congressman legati al Tea Party pensano di essere stati mandati a Washington con l’unico obiettivo di ridurre l’azione del governo. Il loro rifiuto assoluto di cedere anche solo su un punto è molto inusuale per la politica americana.

Ne pagheranno il prezzo nelle urne?

Sì se si arriverà davvero a un default. I sondaggi parlano chiaro: la maggioranza dell’opinione pubblica ritiene che i repubblicani siano stati i più intransigenti. Non solo, gli americani preferiscono di gran lunga un compromesso che metta insieme tagli e aumento del gettito fiscale rispetto a uno che preveda solo tagli come chiede il Gop. Il presidente sinora è stato abile nel far capire che il partito del no sta dall’altra parte dello spettro politico. Lo è stato perché ha il vantaggio del bully pulpit presidenziale, e può richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica come nessun deputato o senatore e neanche lo speaker della camera può fare. Ma è anche vero che la realtà è dalla sua parte. Lui è stato molto flessibile, facendo concessioni difficili da digerire per i liberal, mentre dall’altra parte si è alzato un muro.

Ma i democratici avrebbero accettato veramente l’accordo?Penso di sì anche se non essendoci stato un voto non abbiamo la prova del nove su fin dove sarebbero stati disposti ad arrivare. Di certo erano pronti a ridurre la spesa domestica, molto meno a toccare i programmi di assistenza sociale come il Medicare e la Social security. Ma il presidente era disponibile a mettere anche quelle riforme sul tavolo, solo che non si è mai arrivati a quel punto visto l’impasse sulle tasse.

Era un compromesso, quello uscito dalla commissione fiscale – riforma del sistema di tassazione in cambio della cosiddetta “entitlement reform” – che chiedeva sacrifici a entrambi i partiti, anche se onestamente più ai democratici, essendo i tagli alla spesa molto più ampi dell’aumento del gettito.

Che succede adesso?

Adesso ci sono due testi, uno repubblicano alla camera e uno democratico al senato e la prima domanda e se lo speaker repubblicano John Boehner e il leader della maggioranza democratica al senato Harry Reid riusciranno a compattare le loro stesse truppe, cosa non scontata, e poi ci sarà il grande dramma di riconciliare le due versioni. E non so come i democratici potranno votare un testo che non concede loro nulla.

In più la proposta di Boehner innalzerebbe il tetto solo per i prossimi sei mesi, per cui ci ritroveremmo a rigiocare questa battaglia nel bel mezzo della campagna presidenziale, cosa inaccettabile per Obama. Siamo in territorio incognito, non è più impensabile la prospettiva di un default.

Obama può decidere di agire da solo?

Una teoria costituzionale, che personalmente non sostengo, fa riferimento al 14esimo emendamento secondo cui gli obblighi fiscali del governo federale sono sacrosanti e devono essere rispettati. C’è una scuola di pensiero secondo cui il presidente potrebbe interpretarlo come un’autorità costituzionale implicita che gli darebbe il potere di ordinare al segretario al tesoro di continuare a contrarre prestiti per finanziare il governo. Sarebbe un passo azzardato, ma chi può dire cosa accadrà se il Congresso si dimostrerà incapace di agire?

Se alla fine si dovesse raggiungere un accordo molto penalizzante per i democratici, si acuirebbe la crisi tra il presidente e la sua base? O lo scontento a sinistra riguarda soprattutto le élite?

Ho molti dubbi sui sondaggi che danno i liberal pronti ad abbandonare Obama: sì, sono scontenti e si sarebbero aspettati di più da lui, ma alla fine non hanno nessun altro posto dove andare.

A essere senza casa sono indipendenti e moderati?

In qualche modo sì perché da un lato c’è da parte democratica la negazione dell’urgenza di affrontare una riforma di Medicare e Social security, dall’altra, da parte repubblicana, la negazione della necessità di aumentare il gettito fiscale.

Questo scontento depone a favore di iniziative come Americans Elect? Sarebbero pronti già per il 2012?

Sì ci stanno provando seriamente. Ci sarà una convention via internet per la nomination e quello che rende questo sforzo piuttosto serio è che stanno spendendo molti soldi nella raccolta delle firme per garantirsi di essere sulle schede elettorali in grandi stati come la California. Naturalmente un ticket del genere non vincerebbe, ma del resto il ruolo delle terze forze in America non è tanto vincere quanto influenzare e cambiare l’agenda politica. Per esempio se il ticket fosse composto da sostenitori di un Grand Bargain sul debito questo potrebbe avere un impatto. Quanto a quale dei due partiti soffrirebbe di più elettoralmente, non ne ho idea.



*tratto da “Europa”

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