di Roberto Rossi*
Quei sigilli messi per ordine dell’autorità giudiziaria alla casa di Palazzolo Acreide, sullo sfondo le mura dentro le quali nacque Giuseppe Fava, sono un segno, vanno al di là del loro significato contingente. Sono il finale malinconico di un racconto civile, uno di quelli che lo stesso intellettuale siciliano ucciso dalla mafia nel 1984 avrebbe raccolto e usato come particolare per raccontare una storia infame. Sono la metafora di una sconfitta pesante non solo per I Siciliani ma per ognuno di noi… Claudio Fava, al telefono, ci interrompe subito: «Non è la storia di una sconfitta, è la storia di una vittoria. Ho davanti a me l’elenco di centinaia di sottoscrizioni, dai 5 ai 500 euro, che raccontano di un paese vivo che non vuole abdicare alla propria memoria, un paese che ha coscienza, senso della misura e della decenza. Poteva essere una sconfitta, invece è diventata una grande vittoria di questa nostra storia. Le realtà è che entro il 30 settembre contiamo di riuscire a pagare la somma richiesta».
Centomila euro, contati dopo un quarto di secolo dal tribunale di Catania, a titolo di risarcimento come passivo contratto per la maggior parte nei confronti di un ente regionale nel frattempo disciolto. Che idea ti sei fatto dell’ultimo capitolo scritto su carta bollata del racconto che da 25 anni vi vede protagonisti?
«E’ una delle tante contraddizioni che raccontano la storia di questo paese. Uno stato che ha lottato contro la mafia, in cui una parte delle istituzioni ha pagato prezzi altissimi facendo fino in fondo la sua parte, sovrapposto a una sciatteria normativa, un senso burocratico della storia, per cui c’è un processo fallimentare che va considerato come tutti gli altri. C’è un debito miserabile di 20 milioni di lire che viene sanzionato come se avesse causato una truffa ai decine di risparmiatori. senza senso dell’equilibrio, applicando ostinatamente e puntigliosamente le regole dei codici, la cooperativa dei Siciliani viene trattata alla stessa stregua della Parmalat e tutto questo è più paradossale che ti venga presentato come conto postumo 25 anni dopo».
Abbastanza per considerare la questione alla luce del pezzo di storia che la vicenda dei Siciliani ha consegnato a questo paese…
«È la mancanza di senso della realtà, appunto, di senso della storia, di memoria collettiva, che abbiamo riscontrato in diversi episodi. A fronte di tutto questo la realtà è che senza strumenti, nonostante la barbarie di un giornalismo di provincia, di fronte alla distrazione di tanti altri giornali nazionali, al silenzio dell’informazione televisiva, noi abbiamo raccolto queste risorse quasi completamente. Esiste un paese civile, con la schiena dritta, con una solida memoria, che non ha bisogno di contare quanti anni sono passati per sapere che questo è un debito regolato dalla coscienza di tutti, che quella dei Siciliani è una battaglia fatta per conto, in nome e nell’interesse di tutti, che Giuseppe Fava non muore soltanto per difendere la libertà del proprio giornale ma per difendere il diritto alla libertà e alla verità dell’intera nazione».
«Ci dispiace arrivare in edicola con qualche giorno di ritardo per cause che non dipendono dalla nostra volontà». Questo scriveste nel primo editoriale dopo la morte del direttore. Una frase che rimane scolpita come uno dei momenti più alti della lotta alla mafia…
«Di fronte alla violenza subita, di fronte a chi poco più che ventenne sbatte la faccia contro la morte e contro la violenza mafiosa ricordo la lucidità con cui decidemmo di mandare quel messaggio: “Il dolore sono affari nostri, è un fatto privato, il fatto pubblico è che noi continuiamo, ed è un fatto così scontato che vi chiediamo scusa se arriviamo con qualche giorno di ritardo in edicola.” Credo che quella sia stata la risposta più ferma e anche più efficace all’imbecillità, al senso di impotenza di un gruppo di capimafia, dei loro amici, dei loro protettori che erano convinti che a revolverate risolvevano i loro problemi. Così non è stato».
E cosi non è stato per tre lunghi anni. La vostra determinazione di fronte quella dichiarazione di guerra, le vostre giovani età. Bisogna andare molto indietro nel tempo per rintracciare gli stessi germi di lotta civile, penso al Risorgimento, alla lotta partigiana…
«Cosa tiene insieme un gruppo di ragazzi che scelgono di andare a combattere in montagna durante l’occupazione nazista? Li tiene assieme la consapevolezza che quella è una lotta per la sopravvivenza democratica, non soltanto per la sopravvivenza fisica. Li tiene insieme l’affronto e la violenza subiti, l’umiliazione. Così come noi eravamo legati da qualcosa che ci condusse a un patto collettivo, ad un impegno profondo che andava oltre il giornalismo. Quella è stata una stagione di guerra, come tale vissuta, di guerra civile, di resistenza civile e democratica, laddove i pensieri di un ragazzo di 23, 24 anni non erano molto diversi da quelli che aveva avuto cinquant’anni prima un giovane partigiano quando gli avevano detto: “Casa tua, il tuo paese è occupato dai nazisti, vedi ciò che c’è da fare.”
«La nostra clandestinità è stata la solitudine pubblica e istituzionale con cui abbiamo vissuto per quegli anni: dal Banco di Sicilia che ci diceva “250.000 lire per una pagina di pubblicità non ve le do perché non li valete, voi che siete la più grande rivista del Mezzogiorno, la più diffusa, la più letta in Italia, oltre che l’unica ad avere scelto quel profilo editoriale, non li volete perché noi dobbiamo fare crediti per centinaia di miliardi ai nostri amici cavalieri del lavoro”, come la lega delle cooperative che ci disse: “Ci dispiace ragazzi non siete simpatici ai miglioristi siciliani e alle cooperative siciliane, per cui meglio che affoghiate piuttosto che provare a darvi una mano.” Questo produsse molto senso di solitudine istituzionale, ed economica attorno a noi. Anche se la nostra non è una storia di solitudine.
«Se attorno ai Siciliani, al nucleo duro di dieci giornalisti, non ci fosse stato un cerchio più largo di chi scelse a 18 anni che quella poteva essere la sua strada, e se attorno a loro non ci fossero state decine di migliaia di donne e di uomini italiani che dissero: “Questa è anche la nostra storia”, saremmo stati spazzata via. Non è solo l’atto di resistenza di un gruppo di ragazzi è l’atto di ribellione civile di un intero paese. Se siamo riusciti per 25 anni a conservare sufficientemente presente e intatta la memoria dei Siciliani, quella di Giuseppe Fava, non è merito di chi ha continuato a fare il giornale, quello è un merito minimo, molto si deve ad una parte di questo paese che ha detto: “Questa è la nostra storia e non permetteremo a nessuno di metterla in discussione”».
Chi è Giuseppe Fava?
«Mio è padre un uomo che ha fatto della propria libertà intellettuale, da intellettuale e da uomo libero, la propria ragione di vita e di morte. Ed era una ragione di identità civile ancora più forte se collocata accanto ai molti falsi intellettuali, alle ancelle di una società culturale che si era ripiegata sua se stessa che aveva smesso di interrogarsi, che aveva scelto di scendere a patti col peggio di questa società, che aveva scelto di firmare un armistizio senza contenzioso.
«Mi ricordo, fra i commenti dopo la morte di mio padre, quello di un signore che per vent’anni era stato preside alla facoltà di lettere, Giuseppe Giarrizzo, considerato uno dei grandi storici italiani. Da lui ti aspetti una parola concreta, e invece quello che disse fu una delle cose più vergognose che io lessi: “Non capisco perché… non riesco a capire le ragioni di questo omicidio, perché? Era uno scrittore, un drammaturgo. Che c’entra la mafia?”
«Erano quelle le due facce dell’intellettualità del Mezzogiorno. Da una parte quelli come Fava che diceva: “Ci sono alcuni principi in cui crediamo e li riversiamo senza perderne una sola goccia nel nostro mestiere”, e quelli che dicevano: “Si tratta di saper vivere. E se per saper vivere bisogna foderarsi lo sguardo di prosciutto e scrivere lunghe articolesse sul degrado dei costumi della Sicilia rinascimentale, meglio far questo.” Col tempo ho apprezzato quel senso di coerenza, soprattutto quando ho visto la miseria, l’incoerenza e l’opportunismo di molti signori che ancora adesso rappresentano punti di riferimento del pensiero meridiano. La grande intellettualità professionale, culturale e giornalistica del Sud. Sono i guardiani di un museo in cui hanno archiviato e conservato ogni ipotesi di verità e l’hanno tenuta al riparo da sguardi indiscreti».
Perché è stato ucciso?
«Era riuscito a dimostrare che il giornalismo a Catania poteva avere un ruolo attivo, positivo, non di retroguardia, e che questo ruolo riusciva anche a mettere in moto alcuni meccanismi di consapevolezza della comunità. Ciò che si riteneva impronunciabile fino al giorno prima sulle pagine del primo numero dei Siciliani diventa pane comune per tutti i lettori. Un giornale che si chiama I Siciliani diventa anche sul piano dei simboli una sfida, perché, a quel punto, a casa tua ti dimostrano da una parte che è giusto, bene, e possibile raccontare il sistema di potere mafioso senza limitarsi ad una cronaca superficiale, dall’altra mettono in discussione l’immutabilità e l’impunità di questo sistema.
«Ora, la domanda, purtroppo senza risposta, è un altra e cioè: “Come matura questa decisione?” Non c’è un gran consiglio del sistema di potere politico-economico-mafioso che a votazione decide. Questo è inverosimile. Ci può essere stata una scheggia impazzita di questo sistema, che si è pensato potesse essere uno dei cavalieri del lavoro, che decide di fare il passo avanti in nome e per conto di tutti. Oppure può essere stata la scelta assunta dalla mano militare di questo sistema, Santapaola e i suoi – senza mandati espressi – perché capiscono che se quel sistema crolla, crolla anche la loro impunità. Il sistema mafioso non funziona come i consigli di amministrazione. È un sistema in cui se tu devi fare ammazzare qualcuno, perché rischia di essere un ostacolo alla sopravvivenza di quel sistema di potere, a volte basta semplicemente una battuta, un’occhiata. Basta dire: “Non sono più in condizioni di garantirti nei processi in corso. Non sono più in grado di darti copertura sul piano istituzionale”. Basta poco, perché poi la mano armata si senta autorizzata e legittimata a togliere di mezzo un ostacolo. Può darsi anche che ci sia stata un’intesa più manifesta, più espressa: “Bisogna impedire che questo tipo di attività intellettuale, di analisi attenta, metta radici in questa città perché se no è finita”. Si arriva così al 5 gennaio del 1984, il cui risultato è utile a tanti. È utile naturalmente per il maggior editore della città, perché si dimostra che l’unica forma di editoria compatibile con quel sistema e quella società è quella de La Sicilia. È utile per i magistrati e gli imprenditori collusi con i mafiosi, è utile per i mafiosi. È utile per i politici che avevano tutta la necessità di non far parlare di mafia a Catania. Alla fine è un sistema che ha prodotto questa violenza. È importante capire che è tutto il sistema che si ribella, ed espelle in qualche modo Fava».
I Siciliani.
«C’era il bisogno di fare un giornale che fosse davvero un giornale, non monotematico, monocorde, me che fosse in anche grado di raccontare la Sicilia libertina, allegra, sfacciata. Nel primo numero c’era una grande inchiesta sul maschio siciliano e l’amore assieme all’altra grande inchiesta sui quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa. Ed era questo, se vuoi, il valore aggiunto in termini di intuizione che aveva avuto mio padre. Quello di capire che questo giornale aveva bisogno di parlare davvero della complessità della vicenda siciliana, dell’animo siciliano, nel quale c’è anche il machismo brancatiano accanto agli imperi del potere mafioso di Santapaola. C’erano alcuni grandi filoni di indagine giornalistica. Uno era la pace, e quindi Comiso, ogni mese facevamo un lungo reportage da Comiso, su Comiso. Un altro tema era quello della mafia, naturalmente, ma vissuto non come fenomeno puramente criminale, ma piuttosto cercando di indagare tutti gli aspetti che rendevano questo sistema di potere realmente forte in Sicilia. Il rapporto col sistema bancario, col sistema di spesa degli assessorati, col sistema politico, col sistema giudiziario. Questi erano i temi più forti e che avevano ogni mese sviluppi diversi. Tutti gli aspetti, le vicende, gli spunti di analisi, di racconto giornalistico, di inchiesta che erano siciliane per caso, ma che facevano della Sicilia una metafora più compiuta di ciò che era il Mezzogiorno, di ciò che era l’Italia in quell’epoca».
«Avevamo affittato un enorme scantinato a Sant’Agata Li Battiati (Ct), lì avevamo collocato la struttura tipografica. Avevamo due macchine piane, taglierine, computer primordiali. Anche se poi cominciammo a stamparlo a Roma, perché la tiratura salì al di sopra delle dodici, quindici mila copie. Occorreva una rotativa e quindi ogni mese andavo su a portare le pellicole perché lo stampassero. Di fatto ogni giorno la redazione era una grande comunità che si ritrovava, ragionava, discuteva. Il mensile prendeva forme lentamente giorno per giorno. Una grande scuola di vita. Eravamo tutti giovani tranne mio padre, tutti ragazzi che erano delle spugne: assorbivano tutto non soltanto sul piano del mestiere. Era una cooperativa di nullatenenti che affrontava un’impresa editoriale con una esposizione per centinaia e centinaia di milioni. I contratti pubblicitari li firmavano gli altri giornali, non noi».
Cos’è stata l’informazione in Sicilia?
«Quella più ufficiale, più ortodossa, quella dei grandi quotidiani del mattino è stata un’informazione di regime con punte di autentico consociativismo mafioso. Penso al Giornale di Sicilia negli anni del maxiprocesso, penso a La Sicilia negli ultimi trent’anni della sua storia. Le responsabilità di questa informazione nelle ferite patite, nei lutti subiti, nelle sconfitte maturate nella lotta contro la mafia sono altissime e mai indagate fino in fondo. E non sono responsabilità da imputare solo ai padri padroni, agli editori, capaci, per ragioni di bottega, di interessi, di affari, di far dei loro giornali un luogo di silenzio, di controllo della coscienza civile con punte di reticenza e di menzogna. Ci sono anche tanti giornalisti che rispondendo sempre “signorsì” hanno scelto di sacrificare ogni dignità professionale».
Spesso, anche dai gradi quotidiani nazionali, la mafia è raccontata come una questione locale e strettamente criminale…
«È un sistema di bugie che copre un sistema di potere che ha impregnato di sé carriere politiche, carriere imprenditoriali, la sorte delle grandi scelte economiche di un popolo, la sorte della pubblica spesa, degli appalti pubblici. Pensare che ci siano i ladri di passo e poi qualche colletto bianco che al massimo fa un po’ di denari è un errore. C’è stato in passato in maniera più massiccia, ma c’è ancora adesso, un sistema di potere mafioso cha ha una capacità di infiltrazione orizzontale e verticale in tutte la altre forme di potere, altrimenti non si spiegherebbe come sia possibile l’esistenza di interi comparti economici in cui non è prevedibile che un solo subappalto sfugga a cosche mafiose. Non riusciresti a spiegartelo se non attraverso una capacità di ricatto, di collusione, di complicità che mette insieme pezzi della società politica, pezzi della società finanziaria e pezzi della società mafiosa e che ha avuto anche nella reticenza intellettuale, informativa e culturale una garanzia, una cerniera di impunità formidabile. Siamo ben oltre episodici problemi di criminalità organizzata».
Alla luce di tutto questo. Data l’esistenza di un sistema di potere che finisce per bloccare ogni manifestazione di democrazia, di libertà economica, di società aperta, di fruizione di diritti essenziali, della dignità stessa dell’essere umano. Ecco, secondo te, la lotta alla mafia può rimanere solo uno dei tanti temi di agenda politica (quando va bene)?
«La lotta alla mafia è il tema della politica! Perché la nostra situazione non è molto diversa da quella del paese occupato dai nazisti. La resistenza, la lotta partigiana cos’era? Solo uno dei temi dell’agenda politica? La guerra di liberazione è il tema dal quale derivano e discendono tutti gli altri.
«Noi abbiamo commesso questo errore. L’ha commesso una certa sinistra che ha ritenuto che immaginare un paese normale servisse a renderci più presentabili agli elettori, a ritenere che la parola mafia, la parola antimafia, fossero logore, che non portassero voti. Questi ragionamenti da burocrate della politica sono quelli che hanno ridotto il centrosinistra al 30% e che hanno permesso di tollerare che la contraddizione formidabile di questo governo, di questa destra, venisse taciuta.
«Nelle dieci domande di Repubblica, nei comizi dei segretari in pectore del Pd, nelle cento iniziative contro il governo Berlusconi si citeranno spesso le Noemi, le giovani amanti del premier. Ma nessuno dirà: “Come è possibile sopportare che questo paese sia governato da chi pubblicamente dà dell’eroe a un capomafia assassino come Mangano? Come è possibile tollerare che nella squadra di governo ci sia un signore indicato da diversi collaboratori di giustizia come organico alla camorra? Come è possibile che tutto questo diventi un riflesso di dettaglio, una questione secondaria? Come è possibile che il Comune di Fondi attenda da una anno di essere sciolto? (Lo sappiamo perché. Perché 23 su 30 dei consiglieri sono del centrodestra e lì pescano i loro consensi alcuni ras della maggioranza).
«Ma tutto questo purtroppo è accaduto. Abbiamo fatto in modo che la lotta alla mafia, la lotta per il principio di democrazia, di libertà, di verità fosse considerata fra le varie ed eventuali, uno dei tanti temi dell’agenda politica. In un paese occupato da poteri illegali, come è quello nostro, la lotta contro quei poteri deve essere il principio di ogni azione politica».
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