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Lea Garofalo, i Cosco e la mafia che non c’è
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di Lorenzo Frigerio*

Lea Garofalo, i Cosco e la mafia che non c’è

Il nostro è un paese davvero strano, dove tutto può succedere, anche di vedere scomparire la mafia dove, invece, questa si rende assolutamente visibile con i meccanismi propri delle associazioni criminali che abbiamo imparato a conoscere in altre regioni d’Italia.  Qui però siamo in Lombardia, siamo a Milano e per decenni si è preferito nascondere la testa sotto la sabbia per non vedere, per far finta di non vedere. Oggi però, oltre a quanto reso evidente dall’operazione Infinito che ha svelato la colonizzazione operata dalla ‘ndrangheta, il duro confronto con l’arroganza criminale e mafiosa ci sembra emerga più plasticamente da un’altra vicenda, solo apparentemente minore. È proprio la storia di una donna che si chiama, anzi si chiamava Lea Garofalo, che spiega la presenza arrogante e quotidiana del crimine mafioso in città.

Alcune suggestioni

Prendete una donna che decide di rompere con l’omertà del clan nel quale il suo compagno l’ha costretta a vivere e che, sopravvissuta ad un precedente tentativo di omicidio voluto per punirla della collaborazione con la giustizia, decide di venire a Milano, per parlare con l’ex compagno del futuro della figlia, ma soprattutto con la fondata convinzione di trovare una maggiore sicurezza per sé e per la figlia, che è la ragione della sua lotta per la sopravvivenza. Non ci si aspetta certo che possa essere sequestrata in pieno centro di Milano, con tanto di ripresa da parte delle telecamere pubbliche e che possa essere sciolta nell’acido, con una modalità di esecuzione dell’omicidio presa dal manuale del perfetto mafioso. Prendete il processo per il suo omicidio e fate sparire il corpo della vittima per sempre: fin da subito la persona scomparsa diventa l’imputato principale, colpevole di aver abbandonato la figlia minorenne per andarsene in vacanza e i mandanti e gli esecutori diventano di colpo gli innocenti finiti ingiustamente in manette. Questo almeno secondo la tesi di alcuni degli avvocati difensori.

Prendete un gruppo criminale come quello dei Cosco, con ramificazioni estese in Lombardia e in Calabria, un gruppo di Petilia Policastro che gestisce traffico di stupefacenti, usura e riciclaggio di denaro sporco in pieno centro di Milano e confidate nel venir meno dell’accusa di associazione mafiosa, impossibile da contestare sotto forma di aggravante: i soggetti in questione assurgono al ruolo di protagonisti di una telenovela stucchevole, dove i pettegolezzi, le gelosie, le parentele relegano in un secondo piano la banalità del male quotidiano. Prendete uno stabile di proprietà di un ente pubblico a Milano e vi renderete conto di una sua occupazione abusiva protratta nel tempo: quell’immobile che da tempo ha smesso di essere della collettività è diventato così la roccaforte del potere di quel gruppo criminale, il luogo dove droga, usura, armi e tutto il resto sono business che si svolgono impunemente.

Prendete un appalto pubblico, magari quello per la realizzazione della metropolitana 5 di Milano e non fermatevi all’analisi della certificazione antimafia, perché sarà sicuramente in regola: troverete invece delle sorprese nella catena dei subappalti, perché avrete la plastica raffigurazione di come i clan sappiano coniugare i traffici illeciti con l’inserimento nel redditizio mercato del movimento terra e della realizzazione delle opere pubbliche. Alcuni dei Cosco lavorano nel cantiere dell’opera pubblica e ancora oggi non è del tutto acclarato se questi soggetti abbiano smesso di avervi interessi diretti o indiretti. Prendete, infine, Carlo Cosco, indiziato di omicidio e di altri reati, alcuni dei quali sicuramente fonti di introiti faraonici. Eppure gli sarebbe stato riconosciuto l’accesso al gratuito patrocinio sulla base dei redditi dichiarati: avrete così il risultato paradossale di vedere pagato dalla collettività il suo difensore, nonostante gli accertati traffici illeciti e le grandi disponibilità finanziarie ricostruite dalle ordinanze di custodia cautelare che lo hanno attinto, comprensive dell’offerta di 200.000 euro fatta alla figlia Denise e mai smentita. La notizia dell’ammissione ad un istituto che dovrebbe essere a garanzia del diritto di difesa dovrebbe essere una vittoria del diritto e, invece, suona come la beffa dopo il danno. C’è da confidare però in ulteriori accertamenti, pena la perdita di credibilità del sistema.

Fin qui alcuni degli elementi più significativi di quanto sta emergendo, udienza dopo udienza, nel corso del processo per l’uccisione di Lea Garofalo, collaboratrice di giustizia, sciolta nell’acido alle porte di Monza, in località San Fruttuoso. Un processo carico di tensione e di emotività, che ha visto comparire sul banco dei testimoni anche la figlia di Lea Garofalo, Denise, ammessa come parte civile e tutelata nei suoi interessi dai legali Enza Rando e Ilaria Ramoni dell’ufficio nazionale di Libera. Una testimonianza quella della giovane davvero coraggiosa e capace di fare luce sulla tragica fine della madre.

Fine di una collaboratrice

Ricordiamo che il processo, attualmente in corso di svolgimento presso la Prima Corte d’Assise del Tribunale di Milano, è partito nel luglio scorso e vede alla sbarra il compagno di Lea Garofalo Carlo Cosco e i suoi fratelli Vito e Giuseppe e anche Rosario Curcio, Massimo Sabatino e Carmine Venturino. Secondo l’ipotesi accusatoria, la donna, sfuggita ad un precedente tentativo di omicidio a Campobasso, sarebbe stata rapita e poi uccisa nella notte tra il 24 e il 25 novembre del 2009. Lasciando però che il processo faccia il suo corso per arrivare a destinazione e ricordando, ovviamente, che nessuno è colpevole fino a sentenza passata in giudicato e che quindi per Cosco e i suoi sodali vale la presunzione di innocenza fino a prova contraria, sono altre le questioni da porre in evidenza per non vedere sparire da sotto gli occhi le manifestazioni criminali di tipo mafioso che connotano la vicenda Garofalo e tutti gli annessi e connessi.

Senza voler anticipare il verdetto, nel caso in cui venga riconosciuta la colpevolezza degli attuali indiziati, sarebbe difficile accreditare il movente di tipo passionale e vendicativo per un delitto così efferato. Se Cosco e gli altri fossero condannati, sarebbe chiaro che l’eliminazione della donna sarebbe da ricondurre ad una logica di tipo punitivo per aver infranto la regola dell’omertà all’interno del clan, famiglia di sangue ma anche famiglia d’onore. E che si tratti di un clan, quello dei Cosco, dedito a loschi traffici, emerge da una seconda ordinanza di custodia cautelare che li ha raggiunti, attingendo altri soggetti riconducibili al medesimo milieu, mentre si trovavano già in carcere con le accuse di omicidio e occultamento di cadavere. Un’ordinanza frutto dell’approfondimento delle intercettazioni relative alla vicenda Garofalo e delle indagini successive che hanno consentito di ricostruire un vasto traffico di sostanze stupefacenti e un ramificato giro di usura a Milano.Il potere dei Cosco, come è ricostruito in questa nuova ordinanza, ha il suo punto di forza in uno stabile che si trova nel centro di Milano.

Droga, armi e usura

«Iniziando a parlare di Cosco Giuseppe, io avevo modo di assistere quando rientravo in viale Montello pressoché quotidianamente all’attività di vendita di cocaina da costui possa in essere. Lo vedevo che si incontrava con moltissimi acquirenti, le cessioni avvenivano in cortile, era veramente un via vai nel senso che tutti i giorni, sia nel tardo pomeriggio che la sera, sia nei giorni feriali che festivi, io vedevo che il Cosco Giuseppe spacciava a tutta questa gente. Ovviamente queste scene le vedevo o mentre rientravo a casa, oppure quando mi affacciavo dal balcone, anche perché spesso c’erano delle discussione con gli acquirenti che iniziavano a urlare o parlare ad alta voce. Era un’attività che Cosco Giuseppe faceva senza adottare particolari accorgimenti per non farsi vedere, del resto il comprensorio di viale Montello. 6 è sempre stato dei Cosco».

È un passaggio della deposizione di una persona vittima di usura da parte dei Cosco che è finita in questa seconda ordinanza del Gip Giuseppe Gennari. Via Montello 6 è questo l’indirizzo dello stabile che, ai margini della Chinatown milanese, fin dalla metà degli anni Novanta è stato occupato abusivamente dai Cosco. Un’occupazione all’inizio condotta in silenzio, come conveniva, ma oggi esibita con impunità. L’immobile è di proprietà di un ente pubblico, l’Ospedale Maggiore, ma inspiegabilmente fino ad oggi terreno d’azione incontrastato per una famiglia impegnata in una serie di affari illeciti.

La maggior parte degli appartamenti dello stabile e alcune pertinenze immobiliari sono state gestite dalla famiglia originaria di Petilia Policastro per occultare senza pericolo droga e armi. Già nella prima ordinanza relativa all’omicidio Garofalo si rilevava il coinvolgimento dei Cosco nel traffico di stupefacenti, in accordo con i gruppi operanti in un altro quartiere di Milano, Quarto Oggiaro ma è questa seconda misura che ne restituisce tutta la loro potenza. A completare il quadro di impunità, il fatto che molti di questi appartamenti e magazzini del comprensorio siano ceduti dai Cosco in subaffitto a terzi, soprattutto eritrei e cinesi, senza che il legittimo proprietario abbia eccepito alcunché in questi anni, con un ulteriore entrata di contante, utile ad alimentare una circuitazione continua di denaro, costantemente ripulito e reimpiegato per i fini più diversi.

Tutto questo avveniva – e continua ad avvenire purtroppo – alla luce del sole, in particolare all’interno del cortile del comprensorio di via Montello: vengono descritti nell’ordinanza i frequenti momenti della giornata in cui gli scambi avvenivano sotto gli occhi di tutti e le grida dei compratori arrivavano fino in strada, attirando l’attenzione dei passanti, propensi però a farsi i fatti propri. Un assoluto controllo del territorio, una zona franca dove gli stessi operatori delle forze dell’ordine sembrano far fatica a restaurare il controllo di legalità. Ecco allora uno dei segni della manifestazione del potere criminale e mafioso, talmente plateale da non poter essere ignorato: l’assoggettamento del territorio esercitato senza che vi sia alcuna forma di contrasto. Ed è un paradosso che si fatichi a far reggere in aula la contestazione di associazione mafiosa a carico di una famiglia così strutturata.

L’enclave di via Montello


Leggete di via Montello, Milano, Lombardia e vi trovate improvvisamente catapultati, per un gioco di specchi e rimandi, in altri contesti ben più tragicamente noti come i quartieri Scampia a Napoli o Zen a Palermo. Invece siamo a pochi chilometri dal Duomo, come ricorda Gennari: «Il quadro che viene fuori è quello di una vera e propria enclave nel cuore della città in cui la famiglia Cosco spadroneggia con esibita arroganza. Non solo i calabresi vendono cocaina alla luce del sole – evidentemente consapevole di una sostanziale impunità che deriva anche dal controllo ambientale della zona –, ma essi hanno fatto cosa propria dello stabile di via Montello n. 6, che gestiscono con piglio da immobiliaristi. Gli inquilini che lasciano la propria unità immobiliare restituiscono le chiavi ai Cosco, che affittano e vendono (cioè concedono l’uso a tempo indeterminato, visto che – dal punto di vista del diritto civile – non possono vendere un bel niente) a loro piacimento.

Inquietante è il collegamento con la comunità cinese, alla quale i Cosco si rivolgono per acquisire schede telefoniche anonime (e lo si è visto anche nella indagine per l’omicidio di Lea Garofalo) ed alla quale i Cosco affittano i magazzini destinati ad attività che – proprio per la modalità di acquisizione del bene strumentale – quantomeno sono irregolari». Le conclusioni del Gip sono sconsolanti: «Tutto questo accade in una proprietà pubblica, abbandonata da quell’Ospedale Maggiore che ne sarebbe titolare. Tutto questo accade, anzi, proprio la condizione di abbandono in cui versa lo stabile di via Montello n. 6 per il quale – probabilmente – il recupero è meno conveniente del disinteresse». Alla luce di questa nuova ordinanza di custodia cautelare, ci chiediamo cosa altro si aspetti per far rispettare la legge, per ripristinare la proprietà nei suoi diritti e per sgomberare l’influenza criminale della famiglia Cosco dal centro di Milano. A chi tocca ora fare qualcosa?   

*tratto da www.liberainformazione.org


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