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Articolo 21 - ECONOMIA
Fisco e lavoro: un condono per gli evasori?
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di Domenico d'Amati

Fisco e lavoro: un condono per gli evasori? E’ un dato di fatto che l’evasione fiscale si accompagni spesso nelle imprese all’elusione degli obblighi derivanti dalla normativa previdenziale e del lavoro, con il mancato pagamento dei contributi, la corresponsione di retribuzioni inferiori ai minimi contrattuali, l’alleggerimento e la falsificazione delle buste paga, il diniego ai dipendenti di elementari garanzie.
Il lavoro nero o camuffato da fantasiose forme contrattuali è funzionale all’evasione fiscale perché consente, fra l’altro, di occultare i proventi. Eppure, mentre contro l’evasione fiscale le dichiarazioni di guerra si susseguono, un simile impegno, sia pure a parole, non si riscontra per quanto concerne la tutela dei diritti dei lavoratori e degli enti previdenziali. Anzi c’è motivo di ritenere che in questo settore si persegua l’obiettivo di un grande condono o, peggio, di una perpetuazione delle inadempienze.
Mentre il Governo si accinge a far conoscere le modifiche, più volte preannunciate, della disciplina dei rapporti di lavoro, puntualmente è stato pubblicato dalla Mondadori il libro del prof. Pietro Ichino “Inchiesta sul lavoro”, ove si prefigura una grande riforma che tra l’altro, dovrebbe restringere il campo d’applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.

L’inchiesta dà atto che attualmente vi sono milioni di lavoratori che pur essendo impiegati in condizioni di subordinazione, vengono privati dei loro diritti con l’espediente di far loro sottoscrivere contratti di lavoro autonomo, come se fossero liberi professionisti.
A questo dilagante fenomeno tuttavia l’autore dell’inchiesta esclude che si possa porre rimedio mediante interventi diretti al ripristino della legalità, osservando che gli ispettori del Ministero del Lavoro, dell’INPS e dell’INAIL sono poco meno di cinque mila a fronte di milioni di casi di evasione ed elusione e che i lavoratori sono riluttanti a denunciare le irregolarità.
Anziché potenziare i servizi ispettivi e tutelare i lavoratori liberandoli dal timore di far valere i loro diritti, secondo il prof. Ichino alla situazione si dovrebbe porre rimedio con assunzioni di nuovo tipo che riconoscano la qualità di lavoratore subordinato a tempo indeterminato a tutti coloro che prestino la loro opera per una sola impresa continuativamente e con retribuzione inferiore a 40.000,00 euro annui; ai nuovi assunti l’art. 18 non si applicherebbe per i licenziamenti giustificati con motivi economici, ma solo a quelli disciplinari e discriminatori.

Gli oltre cinque milioni di irregolari attualmente presenti nel mondo del lavoro, nel disegno riformatore dovrebbero beneficiare del nuovo contratto unico. Ma non si può pensare che l’imprenditore, dopo averli utilizzati con contratti fasulli li traghetti al rapporto di lavoro a tempo indeterminato senza ottenere una liberatoria per il passato.
In mancanza di questa infatti il lavoratore regolarizzato, dopo l’assunzione con il nuovo contratto, potrebbe far valere davanti al giudice l’anzianità acquisita nel periodo precedente in cui ha lavorato di fatto, come un dipendente, pur se con targhette fittizie.
Si arriverebbe così a un grande “condono” che costituirebbe da un lato una confessione di impotenza e dall’altro l’ennesimo attentato alla credibilità delle istituzioni.
Questa soluzione comunque non varrebbe ad eliminare la discriminazione fra i lavoratori asseritamente ipergarantiti (perché protetti dall’art. 18) e tutti gli altri.

Ai lavoratori regolarizzati infatti, nelle previsioni della riforma, non si applicherebbe l’art. 18 St. Lav. in caso di licenziamento attuato per ragioni economiche, mentre l’attuale regime permarrebbe per i lavoratori assunti in precedenza.
Questa disparità di trattamento non ha la benché minima giustificazione, nemmeno nella asserita necessità di consentire alle imprese di licenziare chi non gli serva più. Infatti anche nell’attuale regime dell’art. 18 il licenziamento individuale per ragioni economiche ed organizzative è pienamente possibile, sempre che le ragioni effettivamente sussistano.
L’art. 18 si limita a prevedere, per il caso di infondatezza della motivazione del licenziamento, la sanzione della reintegrazione, l’unica effettivamente idonea a scoraggiare le espulsioni arbitrarie dal momento che il pagamento di una limitata indennità non costituisce un problema per un’impresa. Alla tutela della reintegrazione, secondo i fautori della riforma, si dovrebbe rinunciare per evitare gli effetti perversi della lunghezza dei processi, che esporrebbe l’imprenditore al rischio di dover pagare vari anni di retribuzione prima di conoscere l’esito definitivo di un giudizio. Ma in base alla legge speciale sul processo del lavoro la durata di una causa, non dovrebbe eccedere, compresa la cassazione, i 18 mesi. E’ d’altra parte nella logica del sistema che chi, pur avendo torto, si intestardisca nella battaglia giudiziaria, ne paghi il costo.

Per eliminare i pretesi inconvenienti, basterebbe far funzionare la giustizia del lavoro in tempi decenti; il che è possibile, come viene dimostrato dal fatto che in alcuni centri giudiziari, come Torino, i processi del lavoro vengono esauriti con grande rapidità.
Se un imprenditore ha necessità di sopprimere un posto di lavoro, anche per finalità di accrescimento del profitto, lo può fare, purché la motivazione sia veritiera e non venga addotta per mascherare una decisione arbitraria. Ancora più semplice è il licenziamento collettivo per riduzione di personale in casi di ristrutturazione o di crisi.
E’ sufficiente che l’azienda rispetti la procedura informativa prevista dalla legge n. 223 del 1991, in attuazione di un regolamento europeo e applichi oggettivi criteri di scelta, perché nel giro di poche settimane possa portare a termine l’eliminazione dei cosiddetti “esuberi”.

Nel libro di Ichino si afferma che in materia i sindacati hanno un potere di veto e che anche per tale motivo l’art. 18 per questi casi, andrebbe eliminato. Ma anche questa affermazione non trova alcun riscontro nella legge e nemmeno nell’esperienza. I sindacati hanno soltanto diritto di essere correttamente informati e la procedura va avanti anche in caso manchi il loro accordo.
A riprova di ciò stanno le migliaia di licenziamenti attuati con e senza l’accordo dei sindacati per ristrutturazioni, chiusure e delocalizzazioni. In materia il lavoratore può ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro solo se in sede giudiziaria risulti che l’azienda non abbia assolto agli obblighi informativi ovvero abbia attuato i licenziamenti senza rispettare i criteri di scelta stabiliti.
Si tratta di elementari principi di trasparenza e di correttezza, al cui rispetto tutti dovrebbero essere interessati, dal momento che quando si chiude un’azienda o si riduce il suo personale, le conseguenze negative ricadono su tutta la collettività, oltre che sull’erario, chiamato a far fronte ai trattamenti assistenziali.        

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