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Articolo 21 - IDEE IN MOVIMENTO
Liberalizzare l'audiovisivo
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di Maurizio Sciarra

Liberalizzare l'audiovisivo

Un po’ di cose apparentemente diverse tra loro si sono messe in fila in questi giorni e riportano il mondo dell’audiovisivo al centro dell’agenda politica di un governo che fa della trasparenza e dell’apertura dei mercati il proprio segno distintivo. Elenchiamoli, questi avvenimenti. Per prima cosa, l’asta delle frequenze. Poi, le nomine al Festival del cinema di Venezia, e a caduta quella della Festa di Roma. La cosiddetta crisi dei “cinepanettoni”. Le promesse di Monti di un intervento sulla RAI.
Un paniere variegato, ma dalla cui analisi può emergere la costruzione di un quadro più chiaro e meno segnato da quel conflitto di interessi che, macigno inamovibile, ha segnato la storia degli ultimi 15 anni del nostro paese ed ha frenato lo sviluppo di una industria che in tutto il resto del mondo è servita come “intervento anticiclico” in questa crisi finanziaria ed economica: l’audiovisivo, il cinema, lo spettacolo, la cultura.
L’asta delle frequenze è stata una delle richieste qualificanti che, durante quello che si ricorda come il Movimento “Tutti a Casa”, che ha portato all’occupazione del tappeto rosso al Festival di Roma di due anni fa, tutto il mondo del cinema ha fatto ad un Ministro che diceva di non avere risorse per finanziare la cultura.

Allora dicemmo che quei soldi potevano essere reperiti mettendo all’asta uno di quei beni comuni, l’etere, che in tutte le costruzioni fantascientifiche del futuro fatto dagli scrittori del secolo scorso non veniva ipotizzato come ricchezza dei popoli, e che oggi diventa strategico per lo sviluppo delle economie immateriali. Un bene che se messo all’asta, potrebbe creare oltre alla ricchezza “economica” anche un’altra ricchezza, che forse ci sta più a cuore : la ricchezza delle idee e dei linguaggi. Quella richiesta ci serviva anche per iniziare a riaffermare un altro principio: chi utilizza il cinema e l’audiovisivo per fare affari, deve contribuire al finanziamento di quel settore, che altrimenti non trova forme per remunerarsi. Sembrava una battaglia persa, avevamo un ministro che pareva ricordare meglio la sua passata (?) occupazione che il giuramento di fedeltà alla Costituzione su cui si basava il suo mandato. Sembrava, come ci dissero allora i produttori, una battaglia contro i mulini a vento.

Ma a volte anche i Don Chisciotte li possono battere, i mulini a vento! Oggi aspettiamo di vedere come sarà impostata l’asta, e come saranno utilizzati i proventi, che sicuramente saranno cospicui. Io, da parte mia, vorrei che questa fosse l’occasione per una apertura dei mercati delle “infrastrutture della conoscenza e della cultura”. Perché continuare a pensare le frequenze in funzione di una tv generalista che sta per scomparire e non invece come uno dei primi passi verso una dorsale di frequenze messe a disposizione di produttori e autori indipendenti, di chi fa televisione in un altro modo e qualche volta vuole accedere alle diffusioni “in grande stile”, di chi crea contenuti e però non ha accesso alle autostrade della trasmissione? Vorrei che venisse finalmente sviluppato quel settore che non è più avveniristico ma di pressante attualità, le TV over the top, la trasmissione di contenuti per IPad, quella che è sempre più la mega convergenza che soltanto pochi anni fa sembrava irraggiungibile.

E qui si apre un’altra finestra. Come mai proprio la tv pubblica, che è stata storicamente all’avanguardia dell’innovazione tecnologica (i famosi ingegneri della RAI erano invidiati in tutto il mondo, neanche la BBC ce li aveva!) oggi non ha un progetto per il web, per la over the top, e usa i tanti canali digitali in suo possesso per veicolare merci anonime, senza creare palinsesti e proposte culturali per quei pubblici differenti, finalmente motivati e consapevoli che devono trovare altrove il soddisfacimento del loro bisogno?

Da qui l’invito al Governo Monti a pensare alla “liberazione” della RAI fuori dalla logica della dittatura dell’informazione. La cattiva politica ha sempre guardato alla RAI come alla possibilità di “farsi vedere” e di veicolare informazioni pilotate. Le guerre alla direzione dei TG si sono combattute sempre per minuti o mezz’ore in più rispetto all’avversario, da confondere con una propaganda che si è fatta via via più volgare e settaria. Ma oggi è sotto gli occhi di tutti che quando le coscienze si svegliano, la domanda di cultura supera quella dell’informazione, sulle tv tradizionali.
Per le infrastrutture tecnologiche di cui disponiamo (a proposito, possiamo ritornare a parlare di banda larga e cablaggio esteso, con accessi liberi, con questo Governo? Possiamo chiedere un forte antitrust per la proprietà delle torri di trasmissione? Magari con la gestione di una società “terza” rispetto ai broadcaster?) l’informazione può essere fruita liberamente attraverso internet, e questo ha decretato il crollo dei TG burletta, della Velina eletta a metodo di lavoro del giornalista; ma ancora c’è bisogno dell’etere (per poco, credo) per fruire comodamente e con qualità alta di cinema e spettacolo.

E allora la RAI deve riacquistare la capacità di progettare e finanziare l’immaginario collettivo, fatto di voci e storie diverse, non più soltanto di “prima serata di RAI 1” come il padrone della fiction dice da anni di dover fare.  Si sa, quando i canali di diffusione sono pochi e in mano ad ancora meno soggetti, l’omologazione è la prassi! Come per esempio sta succedendo al cinema, da qualche anno a questa parte. Certo, le quote di cinema italiano non sono mai state così alte, ma vogliamo dirci che la qualità non sempre è all’altezza? Vogliamo dirci soprattutto che c’è la dittatura della commedia, imposta dai due centri decisionali che determinano i film che si producono?

Quando le integrazioni verticali sono forti, e sono poche, c’è automaticamente restringimento di idee e di linguaggi. E così siamo oggi alla scoperta dell’acqua calda. “Il cinepanettone non piace più”! Ma dai! E’ la stessa storia della FIAT che si ostina a puntare tutto sulla Panda, e quando la Panda non serve più, dice che sono i consumatori che si sono stufati. Nessuno ha messo in campo sperimentazione o soltanto differenziazione dei generi, e quando si arriverà (non è un augurio ma una mera constatazione) alla crisi della commedia, passeremo un anno almeno a vedere film di altre nazioni che hanno realizzato generi e storie diversi, con toni e argomenti differenti. E anche qui sono le infrastrutture che vanno liberate.

Catene distributive che fanno capo ai due grandi broadcaster, che dettano legge sulla scelta delle storie, e per uno dei grandi network un sistema di distribuzione e sale (molti multiplex) tarati ad accettare quel tipo di prodotto e non altro. Non si ha piena consapevolezza di un vero obbrobrio di una nazione che si dice liberale: pochi uomini in Italia determinano la programmazione delle sale cinematografiche, e quasi nessuno dei padroni dei cinema è libero di programmare quello che vuole, se vuol dare da mangiare alla famiglia.  Non ci sono soltanto i tassisti contro cui scagliarsi, oggi! Però le faide interne al centro destra di governo degli enti locali, ci ricordano che ancora il cinema riveste una sua funzione diciamo così di “sottogoverno”. Basta pensare al miracolo compiuto da Galan poche ore prima di andar via di nominare Marzullo in una delle più delicate commissioni ministeriali, quella appunto che determina i finanziamenti alle manifestazioni di promozione del cinema italiano. E alle faide sulla direzione del festival di Roma. Il cinema, i festival servono allora come vetrina per tagli di nastri e tappeti rossi, anche quando li si è vituperati fino ad un’ora prima. La produzione di cinema e fiction serve a creare finte imprese per esercitare sottogoverno.
Ecco, questo è tutto quello che vorremmo vedere spazzato via, da un governo che finalmente parla una lingua che a volte possiamo anche non condividere, ma che tuttavia ascoltiamo con interesse e fiducia.




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