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Eternit: i "sopravvissuti" dell'Icar
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di Simona Silvestri

Eternit: i "sopravvissuti" dell'Icar La conta delle vittime non è finita. Anzi. A Rubiera l’Icar continua a fare paura, anche se ormai lo stabilimento, una delle quattro fabbriche italiane della Eternit, la multinazionale dell’amianto oggi sotto processo a Torino, è chiuso dal 1994. “Siamo come mine vaganti”. Non usa altri termini Alfredo Bersani per definire se stesso e chi, come lui, è sopravvissuto all’Icar. La sua storia è la stessa di molti altri che hanno avuto la sfortuna di lavorare nello stabilimento di Rubiera, dove lui è rimasto a lungo, dal 1969 fino alla chiusura. A Bersani è andata bene, ma molti altri non ce l’hanno fatta. Come Mario Ricci, marito della signora Italia: “Mio marito è morto di mesotelioma alla pleura nel 2005. Non era dipendente (dell’Icar, ndr), lui faceva parte della carovana facchini trasporti, i sacchi dell’amianto li scaricava, lo buttavano nelle buche senza nessuna protezione”. Come Ricci, anche il padre della signora Lucia Procacci. “Mio padre aveva l’asbestosi. Lui è entrato a lavorare in Icar nel 69, nell’83 ha avuto un infarto e allora gli hanno trovato la malattia, ma oramai il polmone si era dilatato tutto”. I lavoratori dell’Icar maneggiavano l’amianto senza la minima protezione, come una mascherina o un paio di guanti: nessuno li aveva avvertiti del rischio che correvano, né si era preoccupato di procurare loro quegli strumenti.
Non è facile stimare quante siano state le vittime effettive dell’Icar. Spiega Oriano Lazzaretti, della Cgil di Reggio Emilia: “Noi al momento stiamo patrocinando 32 casi di cui 11 viventi e 21 deceduti, per un totale di 71 parti costituite”. Da questa cifra è escluso chi ha accettato l’indennizzo della multinazionale e chi ha scelto la strada del processo civile.  “Il problema, però, è che ci sono ancora una serie di soggetti che non siamo riusciti a trovare, perché in quello stabilimento c’era un fortissimo turn over di operai, si lavorava su tre turni e i dipendenti cambiavano da un anno all’altro. C’è poi da considerare l’aspetto logistico dell’azienda, che non era solo ai confini tra due province, ma era anche situata in una zona in forte espansione, perché lì si stava sviluppando il comparto delle ceramiche e c’era un grossissimo movimento di persone”. Non è escluso che in molti dall’Icar siano passati nelle ceramiche, e viceversa, o che si siano spostati in altri comuni. “Tanti lavoratori erano introvabili, tramite l’anagrafe abbiamo scoperto che avevano cambiato comune, e ce ne sono ancora parecchi che non sono stati rintracciati”. A questi, infine, vanno aggiunte tutte quelle vittime delle quali manca la biopsia, magari perché decedute in tempi non sospetti, ma le cui sintomatologie sono compatibili con il mesotelioma.
Il dato preoccupante non riguarda soltanto i lavoratori, ma anche tutte quelle persone che, direttamente o indirettamente, sono entrate a contatto con l’Icar. Anche se Lazzaretti fa notare che a Rubiera non è ancora molto sentito, le dimensioni del problema sono incalcolabili. “Abbiamo, per fare un esempio, il caso di un agricoltore che era riuscito ad avere delle lastre dall’Icar, che lui stesso ha tagliato e con le quali si è fatto il tetto della stalla”. Come lui molti altri, che ancora vivono a contatto diretto con l’amianto, o coltivano i campi contaminati dalle polveri. “La storia è uguale per tutti, l’ho sentita raccontata a Casale, l’ho sentita qua, a Strasburgo dagli esposti degli altri paesi: c’era la fabbrica, nel paese c’era solo quell’azienda, gli scarti erano smaltiti nella stessa maniera, ai lavoratori venivano dette le stesse cose, guai a chi parlava.... A me viene un po’ in mente l’organizzazione dei campi di sterminio, la pianificazione produttiva, che era la stessa in tutti i paesi, con gli stessi sistemi brevettati e consolidati”.
Stando alle stime, la punta massima delle vittime sarà raggiunta solo tra il 2018 e il 2020, quando le conseguenze dell’esposizione da amianto esploderanno in tutta la loro tragicità. Lo sanno bene i familiari, che lottano oggi per avere giustizia ma che vivono nella continua paura di un male oscuro. Racconta Patrizia, figlia di Italia e Mario Ricci: “Stai sempre con il pensiero, la famiglia non è tranquilla, io ci penso, anche se ho quarant’anni e allora ero piccolissima. Chi mi dice che non abbia respirato qualcosa?”. Il mesotelioma ha, infatti, una latenza temporale molto elevata, dai dieci ai quarant’anni. Continua Italia: “È che uno vive sempre chiedendosi: ce l’avrò anch’io? Perché quando mio marito veniva a casa i panni erano sporchi, e, anche se lui li puliva con l’aria compressa e mandava via la polvere, li lavavo io in lavatrice….”.
La prossima udienza del processo di Torino, iniziato lo scorso dieci dicembre, è prevista per il 25 gennaio 2010: la strada è molto lunga, anche se i termini del processo sono stati fissati entro il 2011. Da Torino i familiari delle vittime e gli ex operai si aspettano una sola cosa: che vengano puniti i colpevoli. A ribadirlo è Italia, con pacata fermezza: “voglio giustizia, solo giustizia, né soldi, né altre cose... bisogna che la piantino di fare come gli pare. Non è solo per me, oramai sono quasi cinque anni che mio marito non c’è più, ma per quelli che lavorano tuttora in fabbriche dove non c’è nessuna tutela sul lavoro. Uno, se  lotta, lo fa non per ottenere i soldi, perché a me dei soldi non interessa niente, ma per salvaguardare anche gli altri che vengono dopo”. “Giustizia per tutta la gente che è morta e che non torna più indietro, che è morta per il lavoro, e non è giusto che si debba morire solo per i bisogno di lavorare.” ribadisce la signoria Lucia.
E non si può che concordare lei.

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